Ouroboros – Uroboro: Il Simbolo e il Mistero nel Sogno di Kekulè

L’Archetipo dell’Uroboro e il Mistero di Kekulè

Talvolta i simboli si presentano alla nostra coscienza come se fossero archetipi viventi, intenzionati a comunicare con la nostra psiche profonda con il loro linguaggio onirico. Sono innumerevoli i simboli che quotidianamente si rivelano e si nascondono alla nostra mente razionale, la quale quasi sempre si rifiuta di riconoscerli come messaggeri di un’altra dimensione, di una “realtà” che contiene e genera quella mediamente percepita come ordinaria. Essendo i veicoli che uniscono il mondo delle idee, delle energie e dello Spirito con quello ordinario della Materia, si esprimono fecondando gli animi più sensibili e creativi: nascono così l’arte, la scienza, il genio umano. Come cantava Ovidio, “Et ignotas animum dimittit in artes”.

Spesso i simboli appaiono come custodi della memoria e delle tradizioni; talvolta invece sono vere e proprie ierofanie, ovvero immagini mitologiche e oniriche che sembrano aver sviluppato una esistenza autonoma e aver racchiuso tutto il pensiero degli esseri che nei millenni li hanno sognati, narrati ed eletti fra gli archetipi sacri. Questi, come aveva intuito Carl Gustav Jung, vivono nell’immaginario individuale e collettivo, generano le forme del mito, stimolano le più geniali intuizioni e strutturano spesso le basi stesse delle civiltà.

I sogni del giovane chimico

Friedrich August Kekulè Von Stradonitz (1829-1896) aveva una mente molto razionale, logica e allenata a studiare, qualcuno diceva che era piuttosto attento ai particolari e molto concreto, anche se più teorico che non pratico: suo padre, che era il capo consigliere del Granducato di Assia,  lo aveva convinto a studiare architettura a Giessen, ma dopo un semestre scelse di frequentare con successo le lezioni di chimica di Justus Liebig, specializzandosi poi in Francia.

Nell’estate del 1854 il promettente venticinquenne chimico tedesco August Kekulè stava facendo tirocinio a Londra. Una sera, mentre si trovava su un mezzo pubblico che lo riportava al suo alloggio, August fece un sogno ad occhi aperti, che lo ispirò profondamente. Così lui stesso raccontò l’episodio anni dopo:

In una bella sera estiva stavo tornandomene a casa con l’ultimo autobus, ‘appeso fuori’ come al solito, osservando le strade della metropoli, normalmente piene di vita, ora così deserte. Mi misi a fantasticare, e, voilà, gli atomi presero a danzarmi davanti… Ecco che spesso due atomi piccoli si univano a coppia, un atomo più grande ne abbracciava due più piccoli, uno più grande ancora si collegava con tre o anche quattro piccoli, mentre il tutto roteava in una danza frenetica. E i più grandi si univano per formare una catena… Spesi buona parte della notte a fissare sulla carta gli schizzi dei miei sogni.” (R.T. Morrison, R.N. Boyd, Organic Chemistry, Boston, 1973, pag. 2 della III ediz. italiana).

Quella danza degli atomi pose le basi della chimica organica moderna cominciando a dare una spiegazione sulla struttura dei numerosissimi composti del carbonio: oggi se ne conoscono più di un milione.

Gli “atomi più grandi” nella visione di Kekulè erano appunto gli atomi di carbonio, che, legandosi fra loro e con altri atomi di idrogeno, ossigeno, azoto e altri elementi, formano anche lunghe catene di enorme importanza chimica e biologica che differiscono fra loro anche per la diversa disposizione dei singoli atomi. Grazie alla sua intuizione, Kekulè fu il primo a formulare teorie che spiegassero il particolare ruolo del carbonio nella chimica organica e fra i precursori della teoria strutturistica, che cominciò a fare chiarezza su ciò che all’epoca sembrava un enigma insolubile. Prima di lui e prima della sua visione Friedrich Wöhler scrisse nel 1836: “La chimica organica oggi mi fa quasi impazzire: mi sembra di trovarmi dinanzi a una foresta vergine tropicale piena di cose interessantissime, una terrificante giungla senza fine, dove uno non si azzarda a entrare perché apparentemente priva di vie d’uscita.

Kekulè aveva posto le basi per la futura comprensione delle strutture di tutti i composti del carbonio e delle molecole più importanti dei processi biologici degli esseri viventi, compresa la doppia elica del DNA, con l’altrettanto grande intuizione di Watson e Crick nel 1953. Si può affermare che la visione di un giovane chimico nel 1854 abbia rappresentato il primo passo verso la conoscenza della moderna chimica biologica, dell’odierna bioingegneria molecolare e genetica, e degli straordinari ancora poco immaginabili scenari futuri di tali scienze.

I misteri della formula del benzene

Nell’inverno 1861/62 August Kekulè era ancora alle prese con gli enigmi della struttura di alcuni composti idrocarburici. In particolare stava cercando di scoprire la formula di struttura del benzene (C6H6): la sua teoria sulle catene di atomi di carbonio legati gli uni agli altri aveva già trovato conferme sperimentali, e lui ben sapeva che gli atomi di carbonio formano quattro legami, mentre quelli di idrogeno ne formano solo uno. Tutto questo però era in contrasto con la stessa formula del benzene: come era possibile formare una catena con sei atomi di carbonio e sei atomi di idrogeno?

Lo scienziato all’epoca viveva da solo a Gand, in Belgio, dove aveva ottenuto la cattedra di chimica. Una sera si sedette davanti al fuoco del camino e il turbinio della sua mente razionale si calmò per un attimo, conducendolo sulle strade dell’inconscio, come già gli era successo a Londra sette anni prima. Forse rimase semicosciente o forse si addormentò, sognando catene di atomi come serpenti che si attorcigliavano in grovigli intorno alla legna che bruciava. Osservava immobile la danza di quei serpenti che lo affascinava e lo ipnotizzava. Lentamente un grosso serpente uscì dal gruppo e gli si mise davanti guardandolo fisso negli occhi. August rimase seduto, non si spaventò: era uno scienziato di successo e una delle menti più brillanti della nascente nazione germanica. Si convinse che quella era una visione onirica e tranquillizzò ancora di più la sua mente logica semiaddormentata; pensò di essersi semplicemente assopito davanti al camino, come gli succedeva spesso quando era un po’ più stanco del solito, e che quel grande serpente di fronte a lui fosse solo un sogno. Aveva dedicato gli ultimi sette anni della sua vita al comportamento chimico del carbonio, e questa ricerca era ormai giunta ad un punto cruciale; stava lavorando assiduamente cercando di completare il suo Lehrbuch der organischen Chemie: era normale che fosse stanco, forse anche un po’ stressato e ossessionato dalle formule chimiche. August era certo che l’atomo di carbonio tetravalente formasse anche lunghe catene di idrocarburi, ma la struttura molecolare dei composti aromatici era ancora un mistero. In particolare la formula di struttura del benzene era un problema insolubile: sei atomi di carbonio e sei atomi di idrogeno non sembravano potersi legare fra di loro in un composto stabile senza violare le leggi della valenza che lui stesso aveva teorizzato, con il carbonio che formava quattro legami e l’idrogeno solo uno.

Mentre il cervello sinistro dello scienziato stava ancora cercando di analizzare la visione, il serpente continuava a muoversi lentamente invitandolo ad abbandonare la razionalità, a sopire la mente per affidarsi all’emisfero destro, senza indugiare su sentieri di ricerca già percorsi, che non potevano portarlo a nessuna conclusione che già non avesse ipotizzato. Infine il movimento sinuoso del serpente gli fece mettere da parte dogmi e pregiudizi quando si piegò su se stesso fino ad afferrarsi la coda con la bocca formando un cerchio con il suo corpo. L’antico simbolo dell’uroboro si era manifestato oniricamente. August si svegliò da quell’ipnotico torpore con la soluzione al suo enigma. Si alzò e lavorò tutta la notte riempiendo fogli e fogli di formule chimiche. Al mattino aveva finalmente scoperto la formula di struttura del benzene: una molecola ciclica esagonale, molto simile a un serpente che si morde la coda.

Per molto tempo non volle rivelare il modo con il quale era arrivato alla soluzione dell’enigma e tenne segreta la visione rivelatrice dell’uroboro. Ne parlò solo sei anni prima della morte, nel 1890, durante una solenne cerimonia a Berlino, in cui si celebravano le sue scoperte che avevano dato un enorme impulso all’industria chimica tedesca dei coloranti sintetici, dei medicinali, della carta, delle plastiche, dei carburanti, della gomma. Forse, così facendo, Kekulè volle solo contribuire alla creazione di una leggenda personale; forse già “conosceva” la struttura del benzene, ma non riusciva a renderla fruibile dalla mente conscia e davvero sognare il serpente lo aiutò (ipotesi di Jung della criptomnesia); forse si è inventato di sana pianta un aneddoto allegorico; forse in quella sera d’inverno accanto al camino subiva ancora gli effetti di una involontaria inalazione di vapori di benzene (non possiamo escludere che lo scienziato abbia fatto in quello stesso giorno o nei giorni immediatamente precedenti esperimenti su tale sostanza fortemente volatile, e che, inalandone i vapori, abbia avuto una leggera intossicazione con sintomi quali ipotermia e alterazione dei sensi, che potrebbero spiegare perché si fosse seduto davanti al fuoco e avesse perso momentaneamente la coscienza avendo delle visioni); oppure, come sembrano dimostrare alcune carte, conosceva bene fin dal 1854 l’ipotesi sulla struttura molecolare ciclica del cloruro di benzile del collega francese Auguste Laurent e volle semplicemente dare una spiegazione fantasiosa di una intuizione non propria.

Di certo non sappiamo come siano andate le cose e mi si perdonerà se ho narrato l’episodio dell’apparizione con un po’ di enfasi narrativa; sappiamo però che, in ogni caso, August Kekulè “incontrò” il mitico uroboro, il simbolo per eccellenza della filosofia ermetica, l’emblema della natura ciclica delle cose.

Un ulteriore fatto straordinario della sua scoperta consiste nell’intuizione dell’alternanza dei singoli e doppi legami fra atomi di carbonio che cambiano di continuo la loro posizione nell’anello della molecola di benzene, “vista” e ipotizzata come qualcosa di estremamente dinamico: una anticipazione di circa 75 anni della moderna idea di tautomeria e dell’attuale concetto di delocalizzazione degli elettroni, approfondito da Linus Carl Pauling con i principi della meccanica quantistica.

Ecco come Kekulè raccontò sinteticamente il fatto della visione alla Benzolfest del 1890, esortando i colleghi scienziati a “imparare a sognare” al fine di “intuire la verità”:

Io stavo seduto intento a scrivere il mio trattato, ma il lavoro non progrediva; i miei pensieri erano altrove. Girai la mia sedia verso il fuoco e mi assopii. Di nuovo gli atomi si misero a salterellare davanti ai miei occhi, ma stavolta i gruppi più piccoli si mantenevano modestamente nello sfondo. L’occhio della mia mente, reso più acuto dalle ripetute visioni di questo genere, ora poteva distinguere strutture più grandi, di diverse fogge, disposte in lunghe file in qualche punto assai vicine le une alle altre, tutte che giravano e si attorcigliavano come un groviglio di serpenti in movimento. Ecco che a un tratto uno dei serpenti, afferrata la sua stessa coda, roteava ironicamente davanti ai miei occhi. Come per un lampo di luce mi svegliai, … spesi il resto della notte a elaborare le conseguenze dell’ipotesi. Signori, impariamo a sognare e forse allora intuiremo la verità.” (R.T. Morrison, R.N. Boyd, Organic Chemistry, Boston, 1973, pag. 343 della III ediz. italiana).

Il serpente che divora la propria coda

Il cerchio dell’eterno ritorno vive nell’uroboro (o ouroboros), in esso ci sono contemporaneamente l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, l’Uno e il Tutto, come affermavano i saggi di Alessandria seguaci di Ermete Trismegisto: “En to Pan”. Il serpente che divora se stesso mordendo la propria coda esprime il principio alchemico e gnostico della fine che sempre seguita dall’inizio, così come la morte è la premessa della rinascita. L’uroboro simboleggia anche il ciclo delle acque che continuamente evaporano e si condensano, il ciclico scorrere del tempo e l’alternarsi continuo del dì e della notte, delle stagioni, delle ere, dei cicli vitali nell’eterno presente.

Da sempre il serpente è l’animale più emblematico della morte e della rinascita: il suo ritorno primaverile dopo il letargo invernale negli umidi anfratti del sottosuolo, il suo mutar pelle per crescere, il suo veleno che uccide e guarisce, la sua forma fallica che richiama i simboli sacri della preistorica Dea Madre, Signora degli animali e della vita stessa. Una Vita che si rinnova e si adatta, che scorre con i tempi, che tutto permea, che, anche quando sembra soccombere, cambia e rinasce, anche proprio grazie alla particolare natura delle molecole organiche duplicabili come il DNA, che si avvolge su se stesso come un doppio serpente.

Simboli dell’Alchimia

Come la doppia elica del DNA, l’uroboro è il simbolo anche della doppia natura dell’uomo e della vita, di quel dualismo che talvolta si mostra come dialettica o come conflitto, ma che è lo strumento della legge di attrazione degli opposti e fondamento della riproduzione sessuata. L’unione del principio maschile con quello femminile simboleggiata dall’uroboro è la fusione alchemica e mistica che porta al compimento della Grande Opera, la Pietra Filosofale, il Rebis, l’androgino divino Ardhanarishvara dell’antica iconografia induista, il Tao che la mistica orientale vede come armonica commistione delle opposte polarità.

Gli alchimisti, che non furono solo gli antenati ammantati di mistero degli odierni chimici, già sapevano che tutto ciò che esiste nel mondo della materia trova origine e fine nelle cose del mondo; lo sapevano e lo spiegavano con il simbolo dell’uroboro ben prima della comprensione del fatto che “tutto si trasforma, niente si crea e niente si distrugge” di Antoine-Laurent de Lavoisier, altro grande padre della chimica moderna. Di ciò non si stupisce chi si occupa della realtà che è oltre la mera fisicità della materia, di ciò che la spiega e la comprende. Ecco perché l’uroboro continua, ancora oggi, a manifestarsi con sincronicità nei sogni e nelle visioni, strumento di comunicazione sottile come gli altri archetipi eternamente vitali in noi, simboli della nostra essenza, delle nostre origini e dei nostri destini. Gli archetipi non invecchiano né passano di moda, al massimo possono passare inosservati di fronte alla mente piena di pregiudizi, disattenta o distratta.

Se un archetipo si presenta a noi, esso richiede la nostra attenzione. Poco importa il modo con cui lo fa: può essere un sogno, un pensiero, un’immagine o un semplice articolo come questo. “In ogni caso non è mai un caso”, ma un segnale per la coscienza. Grazie a uno scarabeo volante Jung comprese la legge della sincronicità; grazie al simbolo eterno della spirale Watson e Crick scoprirono la forma del DNA; grazie all’uroboro Kekulè realizzò il suo sogno scoprendo la formula di struttura del benzene, così come poi propose quella tetraedrica del metano forse ispirato dagli archetipi dei solidi perfetti, che già avevano fecondato le menti di Luca Pacioli e di Leonardo Da Vinci. Gli esseri umani possiedono strumenti sottili per indagare l’ignoto e realizzare i propri sogni, devono solo interpretare i simboli che emergono dall’inconscio. Quegli stessi simboli parleranno loro a livelli sempre più alti di coscienza, e un prossimo salto evolutivo dell’umanità sarà di nuovo possibile.

Giovanni Pelosini





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