Dal caldo il canto: elogio della cicala
Nelle campagne assolate o fra gli alberi cittadini, talvolta il sonnellino pomeridiano è allietato dal mantra continuo e monotono della cicala; in altri casi l’insistenza del suo canto può diventare un disturbo per la nostra mente, così distolta dal traffico incessante dei pensieri. Sempre, però, il nostro immaginario associa volentieri lo stridio del simpatico insetto al massimo caldo estivo. Cantus ab aestu, si diceva acutamente nel passato, “il canto proviene dal caldo“.
Narra la leggenda che la dea Eos (Aurora) avesse per amante il bellissimo Titono, fratello maggiore del re Priamo di Troia, e che desiderasse rendere immortale questo amore. Pregò quindi Zeus, sovrano degli Dei, di donare la vita eterna all’amato mortale.
La grazia fu concessa, ma, purtroppo per Titono, non era stata chiesta per lui anche l’eterna giovinezza, cosicché, negli anni, il povero umano continuò ad invecchiare, mentre Aurora si manteneva sempre giovane. Il suo corpo prima si indebolì, poi pian piano si rattrappì, contraendosi sempre più nella pelle grinzosa, deposto ormai come un infante in un cesto di vimini.
La vita però continuava eternamente in quel piccolo corpo rugoso, e, con essa, il desiderio di viverla e di cantarne le lodi. Gli Dei ebbero quindi pena del piccolo essere e consentirono a Eos-Aurora di trasformarlo nella ciarliera cicala, amica eterna dei poeti e delle Muse.
Sacra ad Apollo, la cicala non ebbe mai il desiderio di cantare nelle ore notturne, né in stagioni o momenti diversi da quelli che glorificano massimamente il Sole.
Così la vita eterna è cantata dalla cicala quando il Sole al Medio Cielo esprime la sua massima energia, subito dopo la sua ascesa trionfale e un attimo prima della sua inevitabile caduta: quasi una promessa dell’immortalità dell’anima.
Inutilmente le fiabe hanno tessuto le lodi della saggia formica, che lavora con impegno, che suda sotto il sole estivo per assicurarsi un futuro anche nell’incipiente brutta stagione (come predicò moralisticamente La Fontaine). L’allegra cicala non ha bisogno di sussidi materiali e festeggia comunque la vita durante il suo massimo fulgore: sa che avrà di che cibarsi per tutto il tempo che le sarà concesso, che potrà accoppiarsi contribuendo al gran gioco eterno della vita e che niente le mancherà.
Del tutto d’accordo con Gianni Rodari, non posso che citare la sua poesia in proposito:
Chiedo scusa alla favola antica,
se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala.
Da tempi ancora più antichi di quelli di Omero, una cicala canta la sua gioia con l’ascendere del sole leonino, consapevole della propria eternità. Da sempre la cicala ha imparato a curarsi solo del proprio presente, l’eternamente ciclico presente dell’estate, stagione di gioia, stagione di vita.
Nell’antica Cina, si metteva un amuleto di giada a forma di cicala, simbolo di vita eterna, nella bocca dei defunti.
La parola, il canto, la poesia, infatti, sono eterni come il genere umano e sono un’epifania dell’essenza vera della continuità dello spirito vitale.
Ma ancor più importante per l’uomo è fugare il timore della notte e la paura della morte. Per questo esorcismo di magia naturale è stato spontaneo affidarsi alla dea dell’Aurora ed al canto della sua amata cicala, araldo della vita e della luce splendente.
Giovanni Pelosini
Novembre 8, 2011 alle 23:31
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