La moneta nella borsa

Si dice che chi scrive troppo, finisce per non avere più il tempo di leggere.
Questa terribile sentenza mi ha un po’ preoccupato negli ultimi tempi: davvero mi sto avviando a diventare un troppo attivo produttore di parole senza poterne gioire come consumatore?
Devo ammettere che è vero che libri e riviste si stanno accumulando sul comodino nella vana speranza che il sonno non mi colga troppo presto, e che sempre più spesso contemplo i ricchi scaffali della biblioteca con gli stessi colpevoli pensieri di un diabetico di fronte alla pasticceria, mentre le scadenze editoriali si susseguono a scandire periodi sempre più brevi.
Però ieri è venuto a trovarmi uno dei miei Spiriti Guida a spiegarmi che non dovrei preoccuparmi di scrivere troppe parole, piuttosto, secondo lui, dovrei essere attento a scrivere parole che abbiano un senso e non siano soltanto vani “significanti” senza “significato“.
Arduo compito davvero, se aveva ragione Socrate ad ammonire che la parola scritta aiuta a richiamare alla mente, ma rovina la mente!
Ancora più arduo se si riflette sul rischio fatale di estinguere i significati interiori con l’esteriorità degli scritti significanti. È un po’ come quando, appena svegliati da un lucido sogno di conoscenza speciale, la mente ciarliera dello stato di veglia tenta inutilmente di tradurre in pensiero logico l’illuminazione notturna, tanto onirica e simbolica, quanto non verbale e sfuggente.
Per fare un esempio, provo a scrivere ciò che lo Spirito mi suggerisce con sagacia pari soltanto al suo desiderio metadidattico: La luce lunare è troppo tenue di fronte ai raggi solari del mattino, e questi tolgono nitidezza alle ombre sottili, che scivolano via inesorabilmente con l’avanzare del giorno…
Cosa avrà voluto dire? Stavo cercando di comprendere meglio questo pensiero, quando una voce mi ha distratto.

«Credi che gli scritti parlino esprimendo un pensiero?» Mi ha detto Socrate apparendomi all’improvviso di fronte, al posto della figura familiare dello Spirito Guida. «Ma prova a far loro qualche domanda per cercare di capire meglio ciò che essi intendono dire: ti racconteranno sempre e solo la stessa identica cosa. I discorsi scritti rotolano da tutte le parti restando sempre uguali fra coloro che li comprendono e fra quelli che non ne capiscono niente.»
«Maestro,» ho osato chiedergli, ancora turbato dall’apparizione, «allora è perfettamente inutile che io scriva i miei pensieri?»
La figura del vecchio Socrate barbuto, che mi era così miracolosamente apparsa davanti, ha mostrato un comprensivo sorriso: «Ricorda che il saggio scriverà solo per diletto o per annotare un pensiero, mai illudendosi di poter comunicare le proprie idee agli altri.»
«Converrà allora che mi astenga dallo scrivere alcunché, e anche dal leggere pensieri altrui.» Ho mormorato deluso.
«Ma no,» ha continuato il filosofo bonariamente paziente, «ricorda soltanto che un’idea non ti giunge mai dall’esterno; essa germoglia dentro di te e poi sboccia come un fiore. Se vuoi aiutare i fiori a sbocciare nel tuo animo, dovrai semplicemente preparare il terreno, concimarlo, piantare i semi, curare i germogli, dare acqua alle piantine. E questo puoi farlo anche scrivendo, oppure leggendo, se proprio ti piace tanto farlo. Però devi ricordare che i migliori discorsi non fanno altro che suscitare il ricordo in coloro che già ne conoscono il significato.»
Ciò detto, l’immagine di Socrate è svanita rapidamente così come era apparsa, lasciandomi mille interrogativi, e il dubbio se fosse più utile per me andare a rileggermi il Fedro oppure gli ermetici scritti di Elémire Zolla sul sincretismo esoterico.

In tale dubbio, per chiarirmi meglio le idee, e per praticare un po’ di giardinaggio interiore come mi era stato suggerito, sono andato a rileggermi il Canto XXIV del Paradiso di Dante Alighieri.
Guidato dalla sua amorevole Beatrice, Dante è ormai giunto all’ottavo Cielo, quello delle stelle fisse. Qui il poeta incontra San Pietro, che lo sottopone a un vero e proprio esame prima di farlo proseguire sul suo cammino di conoscenza.
Per prima cosa San Pietro chiede a Dante che cosa sia la fede, e il fiorentino è ben preparato e pronto a rispondere con sapienza teologica secondo quanto aveva appreso nei suoi lunghi studi dagli scritti di San Paolo e di San Tommaso.
Le risposte sono adeguate e l’esame sembra ben superato, ma San Pietro ancora non è soddisfatto, e chiede:
«…Assai bene è trascorsa
d’esta moneta già la lega e ‘l peso;
ma dimmi se tu l’hai nella tua borsa
».
(Paradiso, XXIV, 83-85)
In altre parole, il santo considera buona la preparazione teologica di Dante, paragonandola alla conoscenza della lega, del peso e del valore di una moneta, ma desidera sapere se tale conoscenza fa effettivamente parte del suo bagaglio, cioè se, oltre alla conoscenza, egli è padrone anche della moneta stessa e la possiede davvero nella propria borsa.
In pratica a Dante viene chiesto se possiede dentro di sé, nella sua borsa, il senso (significato) di ciò che a parole afferma (significante).
All’Anima di chi si appresta a visitare il Paradiso non serve “ingegno di sofista“, né alcun bagaglio di conoscenza, ma è essenziale aver riconosciuto in sé ciò che si è appreso con la mente e con l’esperienza.
Sapere tutto di una moneta non equivale a possederla: se ne può discutere senza averla mai posseduta e quindi, in realtà, senza poterla spendere veramente. Analogamente l’Alighieri poteva aver letto e studiato tutte le Lettere di San Paolo e la Summa theologiae di Tommaso, ma in che misura aveva riconosciuto come propri quei contenuti?
Socrate argomentava che, leggendo un testo, si può veramente apprenderne soltanto una parte: quella che già ci appartiene come significato. Possiamo, leggendo, ricordare ciò che sappiamo da sempre come Anime eterne; riconoscerci come tali. Possiamo far sbocciare quel fiore della conoscenza che è già stato seminato in noi grazie alla cura del terreno. Secondo la metafora dantesca, possiamo diventare consapevoli di essere ricchi, di avere molte monete nella nostra borsa. Se le parole scritte possono aiutarci in questo compito, ben vengano, ma si ricordi sempre che esse non possono risvegliare in noi ciò che non c’è, o che non è pronto ad essere risvegliato.
La differenza tra la conoscenza teorica delle qualità della moneta e la moneta stessa è la medesima che esiste tra la forma e la sostanza, tra la parola e l’oggetto, tra il significante e il significato.

Con questo scritto, a questo punto, posso soltanto sperare di aver fatto un po’ di giardinaggio interiore, curando i campicelli dei lettori insieme al mio, e stimolando la crescita delle piantine che vi sono presenti; badando nel contempo sempre più a cosa c’è davvero nella mia borsa e soprattutto conscio, come dicono a Livorno, che i discorsi li porta via il vento.

Giovanni Pelosini



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