Lacrime nella Pioggia (di Lorenzo F.L. Pelosini)

Cinema e Filosofia sotto la pioggia di Blade Runner

Su questo blog mi è stata data carta bianca e la libertà di spaziare su svariati argomenti riguardanti la mia più grande passione, concedendo anche un po’ di tregua e respiro alle persone che sono di norma le vittime del mio costante filosofeggiare sulla Settima Arte. Sapere che c’è gente interessata ad ascoltare i miei vaneggiamenti è un indescrivibile soddisfazione, e questo è ovvio. Ma c’è stato anche un effetto collaterale, una reazione imprevista tutt’altro che spiacevole. Il fatto è che io sono irrequieto per natura. Mi capita di avere delle sensazioni, delle idee che ritengo buone, e sono terrorizzato all’idea che se ne possano volare via così come sono arrivate. E allora a cosa è servito? Se non sono in grado di comunicare agli altri quello che mi scorre dentro, posto che abbia un valore, perché dovrei prendermi la briga di ascoltarlo io stesso?

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser, e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.

Queste sono le ultime parole del replicante Roy (uno dei protagonisti di Blade Runner, interpretato da Rutger Hauer), prima che la sua vita si spenga per sempre sotto l’insensibile scrosciare della suddetta pioggia. Questo, oltre ad essere, forse, il più bel monologo della storia del Cinema è anche una perfetta espressione dell’inquietudine dell’essere umano di fronte al terrore che tutto ciò che ha assimilato, compreso, provato nell’arco della sua intera vita: il colore di ogni cielo sotto cui si è trovato a camminare, il sapore di ogni bacio che ha dato, l’odio o l’amore che ha inequivocabilmente percepito nei confronti di una persona o di una cosa, prima o poi svanisca con lui senza aver trovato altro sbocco.

Le idee non sono nostre più di quanto non lo sia il sole rosso che tramonta nel mare, ma il modo in cui noi lo sentiamo, la tonalità di rosso con cui il nostro occhio, e solo il nostro occhio, lo percepisce, le emozioni che vi associamo, quelle sono nostre quanto la pelle su cui quel sole riversa la sua tinta infuocata.

Nei confronti delle nostre sensazioni sentiamo un intrinseco dovere, un comandamento certamente più forte di quello che ti suggerisce di non rubare e non desiderare la donna d’altri, un impulso paragonabile soltanto all’istinto dell’autoconservazione, forse ancora più forte. Un novantenne costretto a letto nei suoi ultimi giorni di vita, impara ad accettare serenamente anche l’idea della morte. La sente arrivare, la vede arrivare; non alle spalle come una vile assassina, ma di fronte. Non ha una falce in mano, e sotto il cappuccio nero non c’è un teschio, ma un volto gentile di donna. E sorride.

Dico spesso che posso anche accettare che il passato sia passato, ma non posso permettere che esso venga perduto. Siamo persino disposti ad accettare l’idea della fine, se siamo sicuri che quel volume della nostra esistenza è stato trascritto con cura e rilegato con una copertina rigida. Meglio ancora se ne possiamo trovare una copia in ogni libreria del globo. Il modo per assicurarci che ciò avvenga è diverso per ognuno di noi, credo che quello più comune sia quello di cercare di trasmettere il più possibile a figli e nipoti prima che essi raggiungano la fase in cui diventano refrattari all’ascolto.

Io non sono padre né tanto meno nonno, ma sono figlio e nipote e spero di aver adempito almeno in parte al mio dovere, ma per me il sistema migliore è girare film e, quando ne ho l’occasione, scrivere. Essermi preso l’impegno di scrivere ogni mese su questa rivista mi obbliga a scendere dentro di me, là sotto in cantina dove tengo tutti i miei pensieri. Li prendo, li spolvero, li riordino e soprattutto li tiro fuori da lì. Non ricordo chi disse quello che tieni dentro lo hai già perso, quello che doni è tuo per sempre, però mi trovo pienamente d’accordo.

Potrei anche concludere, ma prima di salutarvi vorrei, come sempre, prendervi per mano e portarvi giù con me, in una delle tante crepe che si aprono sulla superficie di questa realtà, una zona d’ombra su cui il professor Ervin Laszlo ha recentemente fatto luce.

Immaginiamo per un momento che in verità nessuna sensazione resti a stagnare dentro di noi, immaginiamo che esista una spontanea osmosi fra noi e tutto il resto, che, se un sasso cade in uno stagno, l’onda circolare si propaghi per tutta la sua superficie e che se una farfalla sbatte le ali, all’altro capo del mondo si verifichi un uragano e immaginiamo di non essere altro che antenne ambulanti, emittenti e riceventi al contempo. Se così fosse, nessuno di noi sarebbe mai solo e niente di quello che viviamo andrebbe mai perduto nella pioggia.

Lorenzo F.L. Pelosini



1 Commento a "Lacrime nella Pioggia (di Lorenzo F.L. Pelosini)"

  1. Dani (Dioydea)

    … Un disco già sentito, il mio, tra le uova di idee tra le braccia, a dozzine appena colte senza perdersi in tempi di covate stantie e circospette, pre-come-confezionate; paraocchi persi tra i capelli -dove li avrò messi gli occhiali?! L’importante è non farmi scappare l’ultima dal guscio tenero, le altre tutte rotte- ma perché non le avrò covate? Arrrrghhhhh… perse, perse.. . perse.
    Chissà che idee, che genio dietro al mistero delle idee!
    Nel dispari tempo della paralisi di massa: tutti a vendere, a vendere… sembra nessuno acquisti e di certo non le mie trovate, pescate, non-covate uova ormai dimesse!
    Alcune solo donate, con-donate, date in affidamento- ma almeno le adottassero! prendessero in affitto! No.!)
    Polli si nasce! Signori! Meglio regalarle, allora (che farsele rubare!)…
    Uovaaaaaa Uovaaaaaaaaaaa Qui si regalano Uovaaaaaaaaaaaaa Signori! Signoreee…

    Dioydea 19/9/10
    (ricevente/trasmittente)

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