Il Peso del Talento: Saper Realizzare le Doti Innate
Chi scopre e valorizza personaggi particolarmente capaci e ingegnosi nel campo dello spettacolo o della cultura è detto, con termine inglese, talent scout, letteralmente “colui che scopre i talenti”. Si intendono così i talenti come persone di ingegno e capacità originali e rimarchevoli, talvolta geniali, che possono essere messe a frutto e produrre risultati apprezzabili. Nello stesso modo si chiamano tali ingegnose capacità, e, di una persona abile a fare qualcosa, si dice che possiede talento. Così oggi nel linguaggio comune il talento è una dote personale, ma non è sempre stato così. Le attuali parole italiana ed inglese derivano dalla lingua galloromanza medievale conservatasi in Provenza, che sembra in parte derivata direttamente dal greco, oltre che dal latino, grazie agli importanti stanziamenti coloniali mediterranei come quello di Marsiglia. Sembra però che in Provenza, qualche secolo fa, si usasse la parola “talento” per indicare la volontà, il desiderio, la voglia. Questa probabile origine etimologica stimola interessanti riflessioni evidenziando un collegamento ideale, e quindi simbolico, fra il desiderio e l’ingegno, come se una dote umana non potesse adeguatamente svilupparsi senza la volontà. Ciò è perfettamente in linea con il pensiero umanistico che tende ad attribuire alla volontà personale ed alla coscienza la responsabilità finale della concretizzazione delle doti innate.
Potenzialità del Tema Natale in Astrologia
Gli astrologi umanisti ben sanno che il tema natale rappresenta soltanto una serie di potenzialità che possono o meno esprimersi nella vita del soggetto. Coloro che sanno decifrare i codici astrologici leggono correttamente nei simbolici aspetti planetari, nelle case e nei segni le condizioni poste all’individuo nel istante e nel luogo della nascita, i suoi limiti, le occasioni, le capacità e, appunto, i talenti. Ma quanto questo individuo saprà (oppure vorrà) dare esito a tali capacità, sfruttare tali occasioni, superare i propri limiti, muoversi all’interno, ovvero oltre, le condizioni imposte non sta scritto nelle stelle. Certamente il tema natale, così come le condizioni fisiche, sociali, economiche, familiari, etniche, e financo epocali, possono esprimere gli ambiti e forse i massimi confini entro i quali ogni individuo avrà capacità di muoversi. Il suo DNA non è ancora sapientemente modificabile a piacere e già rappresenta limiti e condizioni, leggibili nel codice genetico, così come i simboli astrologici sono decifrabili nel codice zodiacale. Ma né un genetista né un astrologo potranno mai dire con certezza quali scelte farà un bambino nella sua futura vita, come utilizzerà le capacità del proprio corpo e della propria mente (per quanto esse possano essere limitate e condizionate), come sfrutterà i propri talenti, come giocherà le proprie carte. E qui entra in gioco la coscienza individuale, e, prima ancora, la consapevolezza dei propri limiti e soprattutto delle proprie doti, seguita dalla volontà personale.
La questione non è di poco conto, se è vero che per secoli ed ancora oggi, si dibatte sul cosiddetto destino e sul libero arbitrio delle coscienze. Su questo punto la mia posizione è netta, ancorché complessa, e invito chi avesse interesse a conoscerla a leggere quanto ho già pubblicato in libri ed articoli a proposito del caso, delle teorie tarologiche ed astrologiche.
La misura e il valore dei Talenti
Andiamo però a fondo nella ricerca del significato originale della parola “talento”, consapevoli che nell’etimologia spesso risiede la chiave interpretativa di concetti difficilmente afferrabili in altro modo, e talvolta analogie simboliche di spessore rilevante.
Il latino talentum deriva dal greco talanton, a sua volta proveniente da un etimo indoeuropeo, con diversi significati, tutti legati alla misura ed alla massa. Era il talanton il piatto della bilancia, ovvero un particolare peso che vi veniva posto sopra. Nell’antica Mesopotamia un talento era una precisa misura della massa, suddivisibile in 60 “mine”, a loro volta suddivisibile in 60 “shekel”, nel tradizionale e mistico sistema sessagesimale che abbiamo ereditato dai Sumeri anche per misurare gli angoli e certi intervalli di tempo. I romani poi chiamarono talento una massa di cento libbre. Si trattava in ogni caso di una notevole quantità di materia, che spesso assumeva rilevantissimo valore, al punto che il talento fu spesso inteso anche come una determinata somma di denaro. Le spese mensili per l’equipaggio di un’intera trireme greca ai tempi della guerra del Peloponneso era una notevole massa di argento pari a un talento, corrispondente a circa 26 chilogrammi (1 talento attico = 26,2 kg di argento). Invece un talento d’oro equivaleva nell’antichità alla massa di tale prezioso metallo corrispondente a quella di una persona.
In ogni caso il talento era qualcosa di altissimo valore, una unità di misura forse poco commensurabile dalla mente umana, seppur ben identificabile come elevatissima: una grande somma di denaro piuttosto che una singola moneta.
Il servo spietato
È interessante l’analogia simbolica fra l’inclinazione del piatto della bilancia su cui si ponga idealmente il talento e l’inclinazione individuale a seguire un desiderio, la propria volontà, ovvero ad assecondare e sviluppare un talento personale. Questo pare che sia il particolare originale significato della parola che si sarebbe conservato in Provenza e tramandato con successo fino alle lingue attuali, grazie soprattutto ad un paio di episodi narrati nel Nuovo Testamento dall’evangelista Matteo.
Nella parabola del servo spietato, Gesù, dopo aver parlato dell’importanza della “pecorella smarrita” ed aver esortato a perdonare le offese “non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, XVIII, 22), racconta la storia di un re che volle fare grazia ad un servo che gli era debitore di molto denaro, e che poi non si dimostrò altrettanto comprensivo con i propri debitori (Matteo, XVIII, 24): “Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.” Questa somma appare davvero paradossale e fu usata da Gesù con ogni probabilità come iperbole, visto che l’intero bilancio annuale del regno di Erode ammontava all’epoca a soli 900 talenti.
La parabola dei talenti
Ma è soprattutto con la popolarità della successiva famosa parabola dei talenti che il significato di ingegno e dote umana si affermò nei linguaggi europei e nella simbologia che ne derivò.
Si narra, infatti, di un ricco uomo in partenza per un lungo viaggio, che lascia in consegna ai suoi servi i suoi beni perché ne facciano il migliore uso amministrandoli in attesa del suo ritorno (Matteo, XXV, 15-18):
“A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo le sue capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.”
Al ritorno il padrone chiamò i suoi servi e chiese di regolare i conti. Fu molto soddisfatto dell’operato del primo servo, che aveva incrementato il patrimonio del 100%, e nello stesso modo elogiò il secondo, gratificando entrambi con nuovi prestigiosi incarichi; ma quando il terzo servo gli si presentò con il solo talento che aveva ricevuto, si infuriò e lo punì severamente. Inutilmente il poveretto si scusò, dicendo che aveva avuto timore di perdere quel poco che gli era stato dato in consegna, e si giustificava, rammentando che in fondo era riuscito a conservare il patrimonio affidatogli; la punizione fu terribile (Matteo, XXV, 28-30):
“Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.”
L’apparente intollerante severità del padrone risponde simbolicamente alla realtà dei fatti, nella quale ogni individuo è chiamato a sfruttare al meglio i propri talenti: che essi siano pochi o tanti, o anche soltanto uno, è del tutto irrilevante. Il destino di quell’unico talento era caro al padrone come la pecorella smarrita: ogni talento, ogni pecorella, ogni essere umano è importante.
Ogni essere vivente esiste ed ha motivo di esistere nell’universo: ha il proprio posto ed il proprio ruolo. Tutti sono importanti. A tutti gli uomini è stato affidato almeno un talento, almeno una capacità da sfruttare per crescere con fiducia in se stesso. Occorre conoscersi e scoprire qual è il proprio talento, per quanto nascosto esso sia in una simbolica buca nel terreno, e quindi utilizzarlo al meglio. La paura è sempre una pessima consigliera, e la sfiducia nei propri talenti è il peggior modo di vivere, poiché è indubbio che ciascuno ne possieda, ma è anche vero che “avere talento” non significa automaticamente dimostrarlo e saperlo utilizzare al meglio.
Il peso del proprio talento sulla bilancia
L’invito mistico e simbolico allora è quello di far pendere il piatto della bilancia con il proprio talento; senza temere di perderlo, perché il solo modo di perdere una capacità è quello di non usarla.
I talenti sono nelle nostre mani, alcuni ne hanno molti ed altri meno, ma tutti hanno la medesima responsabilità nello scegliere se e come usarli. Tutti hanno la possibilità di realizzare l’abbondanza.
Un giorno saremo chiamati a rispondere dell’utilizzo delle nostre capacità a favore dell’umanità e di noi stessi; se non altri, sarà la nostra stessa coscienza che ce lo chiederà.
Questa è l’importanza, la rilevanza, il “peso” del talento.
Giovanni Pelosini
9 Ottobre, 2010 alle 20:41
Non so come hai fatto ma io non riuscirò a dire tutto ciò che voglio in un commento. Lo farò in parte eppure sarà lungo. Sappi che non ne sarò soddisfatta. Mancano altre mille esempi..
Rileggendo per una seconda volta il tuo scritto e avendo nel frattempo rimuginato qualcosa dopo la prima lettura mi accingo ad esporti dei forti dubbi circa l’interpretazione che secondo me del significato di “talento” si è falsata nel tempo.
Avendo fretta stasera non so quanto riesca ad esemplificare, ci provo.
Oggi chi ha “talento” è considerato poco o niente… lo si dice infatti di cani e… gatti (lasciamo i porci alle perle), difficile infatti pensare che almeno in qualcosa non si sia portati. Basta poi guardare qualsiasi Xfactor o le bambine ballerine/canterine che strombazzano per la tv a tutto spiano ( che paura!!) per capire che oggi tutte le Arti son diventate il mestiere di tanti. Basta imparare una qualsiasi tecnica e tutti sembrano talenti, addirittura qualcuno appare genio… Fatto sta che c’è una grande mediocrità in giro e si sente.
Ora… proviamo a pensare invece a chi ha “talenti”.
______ Chi ha “talenti” (e lo uso qui con il significato di “danaro”) può diventare (o meglio: sembrare, (poi di seguito quindi anche “diventare” agli occhi del mondo) un “gran talento” in una qualsiasi delle forme d’arte che lo solletichi di più.
Con i “talenti” si può ottenere di tutto e di più, si può comprare persino il “talento”.
Guarda quanti Artisti, scrittori, musicisti “ricchi” della Storia dell’Arte hanno avuto successo enorme rispetto a grandi Artisti meno economicamente “talentuosi” -(l’aggiunta della “u” forse è un francesismo, introdotto in un secondo momento, intorno al 1945)- ma di certo questi ultimi molto più geni in Arte.
Senza parlare di chi non è stato assolutamente compreso. L’unica capacità che i soldi non danno.
Chiunque vinca al Totocalcio, avrebbero potuto sembrare da subito al mondo gente di grande talento artistico. Difficile costruirsi infatti una carriera artistica senza un soldo. E i “TALENT SCOUT” oggi sono impegnati a fare soldi con altro e bazziccano dove già ce n’è. O no?
Sempre di soldi si parla.
Anzi di “talenti”.
Diciamo infine che le parole, come i fatti… non esistono. Esistono solo le interpretazioni ma una cosa rimane sempre più chiara adesso:
chi ha veramente TALENTO o TALENTI (nel significato di capacità, predisposizione a… etc…) non potrebbe mai e poi mai non “usarli”. L’urgenza creativa porta al FARE sempre e comunque nonostante tu non abbia soldi (talenti) per poter davvero espletare bene e amplificare bene ciò che senti,
Quindi oggi posso confermare che DIO DANARO decide chi vuol considerare essere uomini o donne di talento come meglio gli garba pescando nel mazzo chi effettivamente ne abbia sia chi è del tutto mediocre creativamente ma sappia rubacchiare idee altrui e abbia soldi per farle fruttare.
Gente a non finire sta diventando molto diabolicamente schiava del suo “peso”… quando infatti il talento era usato come misura monetaria, si intendeva un talento d’oro e quindi il peso di una persona in oro.
Vedo diversi “lingotti” circolare per le vie del mondo… ma di talenti artistici veri molti di meno…
Quindi chiudo con una frase potentissima che citò Carmelo Bene nella sua biografia e mi piace conservare mentalmente a “talento” anche l’accezione di danaro:
____” Chi ha “talento” può fare ciò che vuole. Il genio solo ciò che può”.