Simboli della Morte e dell’Aldilà: Halloween, Arcani e Scheletri Falciatori

Fin dalla più lontana antichità, l’uomo ha dovuto confrontarsi con l’idea della morte del proprio corpo fisico. Nelle primitive sepolture, nei riti mitopoietici, nelle religioni, nel culto degli antenati ha sempre cercato una soluzione al dolore e alla paura che provava, e ancora prova, di fronte al mistero della morte. Simboli di vita e simboli di morte cominciarono a intrecciarsi come espressioni di archetipi intimamente correlati giungendo fino alla nostra epoca anche sotto forma di iconografie profondamente evocative. Il periodo dell’anno in cui il Sole transita simbolicamente nel segno dello Scorpione è quello in cui ormai comincia ad essere evidente che le tenebre hanno preso il sopravvento sulla luce dopo l’importante passaggio dell’Equinozio di Autunno. Dopo l’entusiasmo estivo la natura mostra la sua stanchezza con la caduta di foglie ormai non più verdi. Infatti sono il giallo, l’arancione, il rosso a dominare una campagna che dona gli ultimi frutti prima della pausa invernale: quasi una nostalgica rievocazione dei caldi colori solari e luminosi della stagione che sta terminando.

Il ciclo della vita: semina e raccolta

La civiltà agricola che, con poche significative varianti, ha ininterrottamente dominato questo pianeta dal Neolitico fino ai nostri giorni, fece di queste cicliche trasformazioni stagionali la base culturale dei propri miti, dei propri rituali, degli stessi valori fondanti la struttura sociale. Così la caduta delle foglie era il segnale dell’inizio del semestre oscuro, ma implicava la misteriosa promessa della futura rinascita primaverile. Era quindi necessario avere provveduto a fare scorte di cibo e di combustibile, preparandosi ai lavori artigianali che potevano essere svolti all’interno delle case, alla fioca luce delle lanterne e al tepore dei camini. Allo stesso tempo ci si accingeva a seminare nei terreni dissodati i semi conservati per questo scopo, perché, finché girava la ruota del tempo sacro, le azioni stagionali dovevano seguire ritmi precisi che onoravano il ciclico andamento della Vita che sempre si rinnovava.

Il seme veniva ricoperto di terra ed andava a morire ritualmente al buio, al freddo e all’umido, ma la sua morte era necessaria per la futura nascita della piantina che avrebbe generato ben più di un solo chicco. Se il seme sacrificava la sua stessa esistenza per perpetuare la Vita, l’essenza stessa della vita eterna era certamente contenuta nel seme, ma andava, senza alcun dubbio, ben oltre la sua natura fisica e materiale, inevitabilmente destinata alla disgregazione.

Dalla morte del seme la vita della pianta

Il principio per cui la vita non poteva fare a meno della morte fu condiviso nelle più antiche culture contadine di ogni continente. Nelle mitologie le variabili consistevano soltanto nel tipo di cereale: frumento nell’area mediterranea, riso nell’Asia orientale e mais nel Mesoamerica. All’umanità del Neolitico e delle successive culture non sfuggiva certamente l’analogia fra la semina dei chicchi di grano e la sepoltura dei morti, che pure era una pratica molto più antica risalente alle prime tribù nomadi di cacciatori e raccoglitori.

La semina insegnava che dalla morte può nascere la vita: dal seme che “muore” sepolto sottoterra nel periodo autunnale, nascerà a primavera la pianta ricca di frutti.
Con analoga metafora un insegnamento mistico sulla morte è arrivato fino a noi grazie al Vangelo di Giovanni (XII, 24-25), che allude anche al distacco dalle passioni egoiche umane e al dualismo Anima (vita eterna) – Corpo (vita in questo mondo):
In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto: chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.”

Nell’allegoria del seme che muore per poi rinascere a nuova vita il suolo diventava così il confine tangibile di questo mondo dei vivi con il mondo infero e oscuro dei morti.

La vita sembrava proseguire indubitabilmente oltre il passaggio della morte, in forme diverse e misteriose, e i due mondi talvolta interagivano, così come all’alba o al tramonto si realizzavano momentanee e straordinarie commistioni di luce e di buio.

Halloween, Samhain, Ognissanti, tradizioni di commemorazione dei morti

Nello stesso modo nella ruota ciclica annuale del Calendario Sacro, mentre agli Equinozi di Primavera e di Autunno si aveva il massimo istantaneo equilibrio fra i due mondi alternativi della vita e della morte, nelle successive antichissime feste lunari di maggio e di novembre, cioè nella pienezza delle stagioni di mezzo, quei due mondi si confondevano. Le porte dell’Aldilà si aprivano eccezionalmente e i vivi potevano incontrare gli spiriti dei defunti. Nell’antica Europa nacque così la festa che i Celti successivamente chiamarono Samhain, celebrazione rituale fra il 31 ottobre e il primo novembre, che in alcuni popoli fu considerata un vero e proprio Capodanno in cui iniziava il semestre oscuro del ciclo annuale.

In questa festa si ricordavano gli antenati e i defunti del villaggio, e per questo le normali regole sociali erano straordinariamente abolite: il caos doveva sostituire l’ordine per tre giorni, dal 31 ottobre fino al 2 novembre. Da qui deriva l’usanza antica di travestirsi come in un Carnevale autunnale, di comportarsi in modo strano, di fare pazzie: la proprietà privata perdeva di significato e i cancelli e le recinzioni erano gettati nei fossati, il bestiame era portato a pascolare in luoghi diversi dal solito, i bambini, come poveri mendicanti abbandonati dalla famiglia, andavano di porta in porta ad elemosinare cibo. Da queste rituali trasgressioni derivano le usanze di Halloween (da All Hallows Eve, cioè la vigilia di Ognissanti), ancora vive ai nostri giorni.

Dall’Irlanda, antico scrigno di preziose tradizioni europee, la festa dei morti è diventata patrimonio della cultura degli Stati Uniti intorno alla metà del XIX secolo, e più recentemente i riti di Halloween sono stati esportati nuovamente in Europa grazie soprattutto all’industria cinematografica americana, sovrapponendosi a simili ritualità indigene anche italiche mai del tutto estinte e risalenti al più remoto paganesimo. Quindi non è solo anglosassone la tradizione di Jack O’Lantern, condannato a vagare con una zucca svuotata diventata lanterna che illumina il suo sentiero, rifiutato sia dal regno dei morti, sia dal mondo dei vivi, ma proprio per questo forse simbolo della vita eterna, oltre che retaggio dell’usanza celtica di tagliare e conservare come trofei le teste dei nemici uccisi in battaglia, allegorie dell’ideale contenitore dello spirito immortale, della coscienza.
Così nel secolo scorso, ancor prima della “colonizzazione” culturale americana, anche nella nostra Italia era popolare l’uso di svuotare una grossa zucca, ritagliare occhi, naso e grande bocca con denti affilati, e mettere al suo interno una candela per realizzare una grottesca lampada che illuminava il cammino ai vivi e ai morti nella notte a loro dedicata, e divertiva i bambini, che da sempre amano giocare con le proprie paure.

La festa cristiana di Ognissanti (primo novembre) cominciò a sovrapporsi all’antica celebrazione pagana di Samhain almeno fin dal tempo di Carlo Magno (VIII secolo), e successivamente la Chiesa istituì in modo ufficiale la Commemorazione dei Defunti (2 novembre), per continuare la tradizione, ancora vivissima e fortemente radicata fra i popoli di quasi tutta l’Europa, di portare fiaccole e fiori nei cimiteri, di pensare con affetto ai propri antenati, di prendere contatto con gli spiriti dei morti e di celebrarli con la festa simbolica che rappresenta il ciclo eterno della morte, della rinascita e della vita. In questi giorni nella plutoniana Sicilia, da tempo immemorabile, si usa mangiare dolcetti di pasta di mandorle a forma di scheletro o di teschio, le “ossa dei morti”: un modo singolare per coniugare allegria e trasgressione esorcizzando le ancestrali paure nascoste da sempre nell’animo umano.

Farfalle, teschi e scheletri falciatori

Nelle iconografie più antiche le anime che trasmigravano fuori dai corpi erano spesso rappresentate come farfalle in volo, talvolta accompagnate dal dio psicopompo Hermes: la raffigurazione della stessa morte sulle urne cinerarie del mondo classico mediterraneo usava la medesima simbologia. Fu soltanto negli ultimi secoli che dalle leggiadre farfalle si passò a grotteschi scheletri, ossa e teschi, che diventarono inequivocabili emblemi dell’oscuro termine dell’esistenza umana. Nel tardo Medio Evo tali simboli erano ormai affermati e facenti parte dell’immaginario popolare, che cominciò a comprenderli come tali negli affreschi detti Trionfi della Morte e nelle prime figure degli Arcani Maggiori, chiamati appunto “Trionfi”, che poi si diffusero in tutta Europa a partire dall’Italia settentrionale. Il XIII Arcano, talvolta significativamente senza nome, è uno scheletro danzante con una lunga falce; un essere spesso incappucciato di nero, silenzioso esecutore del fato, una maschera inespressiva e severa, senza sentimento né pietà umana.

Lo Scheletro falciatore era ed è un’allegoria dell’inelluttabile evento, che Ingmar Bergman sfruttò magistralmente nel film Il settimo sigillo. Il protagonista, un ancor giovane Max Von Sidow, è un cavaliere del nord Europa che, al ritorno dalle Crociate, trova soltanto lande misere e desolate, devastate dalla pestilenza come in un’apocalittica nemesi. Mentre vaga insieme a un gruppo di attori girovaghi, incontra la Morte con cui comincia a dialogare:

Chi sei tu?” chiede il cavaliere.

Sono la morte,” risponde l’incappucciata figura nera dal volto enigmatico e pallido.

Sei venuta a prendermi?

È già da molto che ti cammino a fianco.

Dammi ancora del tempo.

Tutti lo vorrebbero, ma non concedo tregua.

Il cavaliere cercherà poi di guadagnare tempo con una lunga e decisiva partita a scacchi con la Morte, mentre simbolicamente alcuni personaggi muoiono ghermiti dalla impietosa Falciatrice ed altri nascono. Passò così allo Scheletro falciatore il ruolo che fu di Hermes-Mercurio: accompagnare i defunti nell’altro mondo, nel mondo dei più.

Visioni dell’Aldilà

Nel corso delle varie epoche l’Aldilà fu chiamato in vari modi: Ade, Inferi, Tartaro furono i nomi che dominarono la scena per millenni, fino all’era cristiana e all’avvento del più moderno concetto di Inferno, che Dante Alighieri cantò in maniera mirabile e indimenticabile. Singolarmente le tradizioni cristiane da un lato celebrano il primato dello spirito sulla caducità della carne, mentre dall’altro prospettano l’idea che il corpo mortale tornerà a vivere in tutta la sua materialità nel giorno del Giudizio, riunendosi alla propria Anima. Anche da questa idea deriva la prosecuzione dell’antichissima tradizione dell’inumazione, che  consegna al sottosuolo i corpi dei defunti, con il desiderio e la speranza di poter un giorno incontrare nuovamente gli esseri amati in vita così come li abbiamo conosciuti. Ma ciò, secondo altre culture, potrebbe anche avere il significato sottile di dare tempo all’Anima del defunto di distaccarsi lentamente dal proprio corpo in naturale disfacimento, e di salire gradualmente attraverso gli stadi di trasformazione alchemica.

Nell’antica Persia i cadaveri erano lasciati all’aperto, in cima ad alte torri, affinché le carni fossero divorate dagli uccelli e le Anime fossero così liberate e prossime all’elemento Aria. Diversamente gli antichi egizi che ne avevano la possibilità facevano imbalsamare i propri corpi, evitando così il naturale loro disfacimento, e provvedevano a ricchi corredi funebri che intendevano usare in qualche modo nell’altro mondo. Qualcosa di simile credono ancora coloro che fanno ibernare il proprio corpo, sperando di “indossarlo” ancora, come un logoro vestito in un armadio pieno di naftalina. Tutt’altra visione resiste ancora nelle millenarie tradizioni orientali, secondo le quali i cadaveri sono generalmente cremati per permettere una più agevole ascesi dell’Anima, che deve procedere verso il massimo distacco dal suo “abito” carnale. Il fuoco sembra agevolare questo cammino animico eliminando e purificando le scorie terrene, catalizzando le reazioni naturali delle molecole che compongono i nostri corpi, saltando lo stadio della “Putrefatio” alchemica e restituendo al pianeta ceneri amorfe, atomi e molecole già pronti per l’eventuale utilizzo vegetale delle sostanze organiche e inorganiche che ci compongono e che tornano così a far parte dell’humus.

Quegli stessi atomi che un tempo fecero parte della nebulosa che diede origine al Sole e al sistema solare, e che in un futuro remoto probabilmente torneranno di nuovo a far brillare una nuova stella, sono stati per un brevissimo attimo aggregati in un improbabile complesso che sfidava le leggi entropiche dell’universo e che noi chiamiamo corpo vivente. Sono quegli stessi atomi che in un solo piccolo istante hanno concesso ad un’Anima di fare esperienza in questo effimero mondo.

La ruota delle trasformazioni

Tutto si trasforma incessantemente nella Materia eterna nelle sue temporanee e bizzarre forme. Tutto in natura sembra indurci a pensare che se alla vita segue la morte, è ragionevole che alla morte segua un’altra vita in un ciclo di trasformazioni: aggregazioni e disaggregazioni di atomi. Infatti, il ciclo della vita e della morte sembra essere immutabile, come il susseguirsi delle stagioni, come la ricorrente discesa agli Inferi di Persefone, che aveva mangiato i succosi frutti della melagrana di Ade. Si pensi anche alla mela, rosso frutto di questa stagione dedicata ai morti, quale simbolo di morte e di rinascita, emblema dell’amore e della trasgressione. La tradizione biblica associa a questo frutto il peccato originale di Adamo ed Eva e fa riferimento all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, come se l’atto del mangiare una mela fosse il simbolo dell’acquisizione di una sapienza segreta e riservata: una conoscenza che però sembrò portare con sé anche il dolore e forse la stessa morte. Del mitico frutto Paride fece dono ad Afrodite, dea dell’amore, nel celebre giudizio che fu all’origine della guerra di Troia. Al mistero dell’amore e della morte come tema mitologico allude anche la fiaba di Biancaneve, uccisa da una mela avvelenata e resuscitata da un bacio, in un connubio intrigante conosciuto come “Eros e Thanatos” (Amore e Morte).

Una sottile allegoria della morte è presente anche nel mito greco delle preziosissime mele del giardino delle Esperidi, situato all’estremo occidente del mondo, dove il Sole tramonta e muore nell’Oceano con la segreta e misteriosa promessa della prossima resurrezione nel nuovo giorno; così come i fertili semi di quei frutti, che, solo “morendo” nel terreno, avrebbero donato la vita ad una nuova pianta.

Eugenio Scalfari, nel suo editoriale su «La Repubblica» di domenica 1 novembre 2009, ha citato una significativa frase di Montaigne: “La morte è il fatto più rimarchevole della nostra vita”. Questo apparente ossimoro può indurre a una interessante riflessione, eppure il significato profondo della morte è da sempre il più grande mistero dell’esistenza, e questo perché spesso ci sfugge il senso stesso della vita. Forse davvero, come diceva Montaigne, il pensiero della morte deve accompagnarci sempre e dobbiamo portarlo con noi come il falconiere portava sulla spalla il falco, affinché entrambi prendano dimestichezza l’uno dell’altro e si abituino a questa indissolubile esistenza comune.

Anima e Materia: alla ricerca del senso della morte

C’è chi crede solo nell’esistenza della Materia, riuscendo comunque a dare un significato alla propria vita. C’è invece chi crede nell’esistenza dell’Anima immortale, anche se è ben diverso pensare a se stessi come un corpo che possiede un’Anima, oppure identificarsi proprio in quell’Anima che abita temporaneamente il proprio corpo.

L’idea che si ha (o che non si ha) dell’Anima e il grado di attaccamento egoico alla propria esistenza sono fattori estremamente rilevanti per dare un senso alla propria vita e quindi alla propria morte. Socrate, per esempio, di fronte alla morte si preoccupò soprattutto di offrire un gallo ad Asclepio, come era consuetudine all’epoca, dopo aver dispensato saggi insegnamenti ai discepoli. E ognuna di queste idee può essere un motivo valido per propendere per l’inumazione, la cremazione, l’imbalsamazione, la crioconservazione, o per non fare alcuna scelta riguardo al destino dei propri resti mortali.

Per gli Illuminati in vita la morte non è che un passaggio naturale che prelude ad un altro piano dell’esistenza, spesso agognato, per altri soltanto la trasmigrazione dell’Anima in un altro corpo con cui fare una nuova esperienza di vita.

Francesco d’Assisi, il più mistico e “orientale” dei nostri Santi, cantava le lodi al Signore anche “per sora nostra Morte corporale”, chiamandola “sorella”, e specificando di riferirsi alla “morte del corpo”, cioè al distacco fra Anima e Materia, alla separazione fra la Coscienza (Jiva) ed il suo temporaneo abito terreno.

Il mio maestro indiano Sharma Yogi ha lasciato il suo corpo il 16 settembre 2009 dopo una vita dedicata all’insegnamento: ha chinato la testa sorridendo, mentre leggeva un testo del suo amato Kabir, il mistico che aveva messo in pratica il superamento delle religioni e delle credenze. In quello stesso libro si spiegava il mistero dell’esistenza, l’essenza della vita e della morte, il motivo per cui è opportuno vivere ogni attimo nella gioia e nella condivisione, nella consapevolezza e nell’amore. Certamente Sharma Yogi in quel supremo momento era cosciente dell’arrivo di “Sorella Morte corporale”. Nessun trauma per lui, anzi un dolce e atteso passaggio a una nuova dimensione dell’Essere.

Giovanni Pelosini



1 Commento a "Simboli della Morte e dell’Aldilà: Halloween, Arcani e Scheletri Falciatori"

  1. jacopo

    Complimenti per il post e per il blog… Ottimo! Volevo segnalare il mio Halloween…

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