Fratelli d’Italia, Simboli e Storia dell’Inno di Mameli
Il 17 marzo 2011 è stato celebrato il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Fu, infatti, nel 1861 che fu proclamato il Regno d’Italia, dopo la seconda Guerra d’Indipendenza, l’avventurosa campagna di Garibaldi, i plebisciti e le favorevoli circostanze politiche internazionali. Una vera e propria unificazione nazionale, al di là della comune lingua e cultura, però aveva necessità di simboli: uno fu il vessillo tricolore verde, bianco e rosso, che i patrioti italiani avevano cominciato ad usare fin dal periodo napoleonico; l’altro avrebbe dovuto essere un inno in cui riconoscersi. Giuseppe Garibaldi dimostrò di aver compreso bene il grande valore simbolico di un inno nazionale, di parole e musica che fossero portatrici di un condiviso senso di unità e che, come fanno i simboli propriamente detti, parlassero direttamente e con immediatezza al cuore dei cittadini e dei soldati, non tanto alla loro mente razionale. Il generale a questo proposito scrisse: “Perché i nati sotto il cielo d’Italia non abbisognano dell’estraneo per redimersi, ma d’unione e d’un inno, che li colleghi, che parli all’anima dell’Italiano coll’eloquenza del fulmine! la potente parola del riscatto”.
La metafora del fulmine, segno di un’eloquenza non mediata e non logica, è perfetta e incredibilmente ancora attuale, specialmente se si pensa che nel XIX secolo non c’erano ancora né televisione né radio, né tanto meno la rete internet, ma già i canti popolari, le marce militari e gli inni patriottici riuscivano a diffondersi rapidamente veicolando messaggi politici e propagandistici più efficacemente della stampa e del telegrafo. E fu proprio il giovane ufficiale garibaldino Goffredo Mameli che nell’autunno del 1847, appena ventenne, scrisse di getto, con poche correzioni, su un quaderno di appunti che portava con sé, le parole ispirate del Canto degli Italiani che inviò a Michele Novaro (che le musicò con entusiasmo) e che tanta popolarità ebbe dal periodo delle Guerre di Indipendenza fino ai nostri giorni.
Goffredo Mameli era nato a Genova il 5 settembre 1827 in una famiglia aristocratica, progressista e colta, e si era già distinto, giovanissimo, per l’esuberanza che lo portò ad esporre il Tricolore italiano in occasione delle manifestazioni per il centenario dell’insurrezione genovese contro gli occupanti austriaci; episodio che non mancò di ricordare menzionando Balilla nel testo dell’Inno. Convinto mazziniano e amico di Nino Bixio, nella primavera del 1848 si unì con il grado di capitano a una brigata di trecento volontari genovesi guidati dal generale Torres per sostenere gli insorti delle Cinque Giornate di Milano, conoscendo così personalmente Giuseppe Mazzini e guadagnandosi la stima di Garibaldi, che lo volle con sé come ufficiale aiutante di campo durante le azioni militari del 1848-49. In quegli anni il suo inno era già popolarissimo e si cantava nelle marce e negli accampamenti militari.
Mameli fu particolamente attivo come patriota, vista la sua natura esuberante e passionale, e fu tra i difensori della Repubblica Romana durante il pesante attacco dei francesi di Oudinot, fortemente intenzionati a restaurare il potere temporale di Papa Pio IX. Goffredo Mameli non aveva ancora compiuto 22 anni quando, nonostante la febbre che lo indeboliva da giorni, partecipò ad un attacco alla baionetta fuori Porta San Pancrazio il 3 giugno 1849. Nella concitazione della carica la baionetta di un bersagliere, che lo seguiva correndo, lo ferì alla gamba sinistra; la ferita non sembrava grave ma si infettò, e non essendo ancora note le cure antibiotiche, si procedette all’amputazione dell’arto per evitare i gravi rischi della cancrena. Purtroppo il ferito morì ugualmente il 6 luglio, quando i francesi ormai erano entrati in Roma e Garibaldi era già in fuga per proseguire la guerra e accorrere in difesa di Venezia.
Di lui scrisse lo stesso Garibaldi nelle sue Memorie: “…Mameli Goffredo era mio Ajutante di campo, più ancora amico mio… Il mio cuore è ben indurito dalle vicende di una vita procellosa; ma la memoria di Mameli! la sua perdita mi hanno straziato e mi straziano ancora, pensando alle glorie perdute dell’infelice mio paese.”
Parole che oggi forse suonano retoriche e distanti dal pensiero e dal sentimento dei cittadini italiani, allontanati per mille motivi dalla passione civile e dalla partecipazione politica, ma che allora spingevano tanti giovani e giovanissimi a morire per il loro ideale. Parole che colpirono profondamente l’animo del musicista Michele Novaro quando lesse il testo di Mameli, che poi dichiarò: “Una cosa stupenda!… Io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole”.
Parole che allora non furono certamente prive di un profondo e sincero senso di appartenenza, e che profeticamente Garibaldi riteneva destinate a “sollevare l’Italia dalla polvere”, anche se all’epoca quello di Mameli non era ancora l’inno nazionale.
Fin dalla fine del 1847, con il titolo Canto degli Italiani, era cantato dai patrioti di ogni parte d’Italia come simbolo del Risorgimento in ogni manifestazione, e come tale esortò i volontari e i soldati regolari nelle insurrezioni e nelle Guerre di Indipendenza, facendosi conoscere anche come Inno di Mameli, o Fratelli d’Italia. Con l’unità del Regno d’Italia nel 1861 e per tutto il periodo monarchico, però, l’inno nazionale fu sempre la Marcia Reale, nonostante Giuseppe Verdi autorevolmente utilizzasse le note di Michele Novaro nel suo Inno delle Nazioni nel 1862. Soltanto il 12 ottobre 1946, su proposta del ministro Cipriano Facchinetti, fu adottato in via provvisoria (poi confermato il 17 novembre 2005) come inno nazionale della Repubblica l’Inno di Mameli, meglio conosciuto come Fratelli d’Italia. Dal 2006 il Senato della Repubblica sta lavorando ad un disegno di legge per integrare l’articolo 12 della Costituzione e per considerare sia la bandiera tricolore sia l’Inno di Mameli simboli della nazione.
Nel testo integrale che segue si trovano i simboli di antiche glorie, dall’elmo di Scipione l’Africano, il conquistatore di Cartagine, alle coorti organizzate nelle legioni romane, dalla Dea Vittoria destinata a favorire Roma, agli episodi eroici ormai leggendari di Balilla a Genova, di Alberto da Giussano a Legnano, di Francesco Ferrucci a Gavinana, dei Vespri siciliani: tutti simboli di unione e di forza, di fratellanza e di onore, di appartenenza. Valori e simboli in origine autenticamente apprezzati, che in seguito sono stati alternativamente strumentalizzati ovvero sottovalutati, occasionalmente o superficialmente utilizzati se non addirittura messi in discussione. Valori e simboli sempre difficili da mettere veramente in pratica, come la fratellanza. Valori e simboli per i quali molti giovani e giovanissimi come Mameli non molte generazioni fa diedero la vita.
Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.