La Divina Luce del Sole e le Tre Età della Luna

In questa calda estate romana mi sono ritrovato a cercare refrigerio all’ombra dei pini di Villa Borghese, in attesa che il lungo pomeriggio declinasse dall’afa al fresco della sera. Il Sole ancora alto mi spingeva a stare lontano dai suoi raggi, eppure mi attirava la sua luce solstiziale che sembrava eterna, la gioia che ne emanava, la chiarezza della vista. I più spirituali tra i nostri antenati non potevano scegliere un simbolo di culto diverso per la principale divinità dei loro diversi pantheon, così come la stessa etimologia insegna. Gli antichi nomi Zeus, il Dio Padre Iuppiter, ovvero Iovis, sembrano avere la stessa radice linguistica della parola latina dies, il giorno, il dì. Le nostre parole “Dio”, “divino”, e quelle sanscrite “dina”, “dyu” (giorno, cielo), e “deva” (Dio) trovano corrispondenze simboliche e semantiche con i concetti di luce, giorno, Sole, padre celeste, che gli antichi indoeuropei intesero associare non solo dal punto visto linguistico. Il luminoso padre del cielo fin dalla preistoria scandiva i giorni, e non deve stupire la comune radice delle parole latine “deum” (dio) e “diem” (giorno, dì). E ciò è confermato anche da tante parole sanscrite, come “diva” (il cielo, diuturno), divya (divino, celeste), didhiti (splendore, luce), dipaka (corpo luminoso), dipana (fiammeggiante), dyuti (splendore, luminosità), dyumat (brillante); mentre l’antico termine devaka (colui che gioca o si diverte, divino), prossimo a divyati, devana e dyuta (lanciare, giocare d’azzardo, gioco di dadi) apre interessanti prospettive di ricerca sulla originale natura divina del gioco, sulla numerologia sacra e sullo stesso concetto di “alea”… ma di questo magari parleremo un’altra volta.

Malgrado queste riflessioni semantiche portassero la mia mente molto lontano, il Sole estivo che illuminava il parco cittadino era ancora giovane e la temperatura elevata ricordava al mio corpo la sua presenza in questa realtà materiale. Decisi allora di gratificare corpo, mente e spirito entrando nella Galleria Nazionale di Arte Moderna, dove il mix di aria condizionata e opere d’arte poteva essere una accettabile soluzione a quel pomeriggio romano, specialmente quest’anno in cui ricorre il 150° anniversario della nascita di Gustav Klimt.

Fu una buona idea, e la visione dell’unica opera di Klimt presente in Italia permise al flusso dei miei pensieri di proseguire sulle flebili tracce di un passato remoto che gli archeologi inseguono spesso invano e che gli artisti riconoscono antropologicamente in loro stessi.

Gustav Klimt dipinse ad olio su tela Le tre età della donna nel 1905 con il simbolismo elegante delle forme sinuose che contraddistingue molte delle sue opere, e il preziosismo cromatico che ne fece uno dei più arditi e discussi esponenti dell’Art Nouveau.

In questa tela alcuni hanno visto un’allegoria della triplice grande Dea della preistoria, la Luna, astro notturno che appare nelle sue tre fasi: giovane e crescente, piena e matura, anziana e calante, giacché la Luna Nuova è invisibile. Così come il Sole è sempre stato emblema della luce e della chiarezza, la Luna lo è della vaghezza, della notte e dell’oscurità. E se il Sole rappresenta il Padre Celeste, la Luna è certamente l’antica Madre degli Dei e degli uomini.

La maggior parte dei critici legge ne Le tre età della donna di Gustav Klimt ciò che è più evidente, cioè il simbolo del tempo che passa, rappresentato dalla bambina che dorme serenamente, dalla donna matura che giace e la tiene stretta, e dalla vecchia nuda che appare disperarsi della sua condizione fisica. Ma forse l’artista non intendeva raccontare soltanto questa ovvia favola dell’esistenza. Le opere di Klimt sono talvolta, come questa, “bidimensionali”, non distinguendo il verticale dall’orizzontale: l’anziana è in piedi, ma la donna con la bambina potrebbero essere indifferentemente in piedi oppure distese su un giaciglio, visto che sembrano dormire entrambe. E così come lo spazio appare indefinito, anche il tempo lo è. Le tre figure non sono da leggersi una dietro l’altra da destra a sinistra, come se fossero sull’illusoria retta del tempo lineare, ma possono essere interpretate una all’interno dell’altra, contemporaneamente, o piuttosto in un eterno fluire del tempo ciclico. La normale lettura occidentale, da sinistra a destra, ci porta ad analizzare per prima la figura della donna anziana, curva come a contenere le altre due, curva come la Luna Calante in un firmamento che già comincia a mostrare miriadi di fiori come stelle che iniziano a brillare solo quando il cielo si fa scuro. Il suo ventre prominente, memore della perduta fecondità, rivolge la convessità dalla parte opposta. L’incapacità di chiudere gli occhi alla realtà la spinge a tapparseli con la mano, mentre le altre due figure li tengono spontaneamente e naturalmente socchiusi nel fiducioso riposo. Ma la donna anziana contiene altre forme di se stessa.

La donna matura ha la chioma brillante e più luminosa ed è la vera regina del quadro, calma nella sua forza di madre protettiva, trova la sua stessa serenità nell’ingenuo affidarsi della bimba, alla quale si appoggia con il capo reclinato, come quasi la vecchia si appoggiava su di lei. Il suo seno è centrale nella figura a richiamare simbolicamente il candido latte materno; ed anche la sua pelle è pallida come la Luna Piena, a ricordare la sua luce notturna.

E infine c’è la bambina, chiara di pelle, ma scura di capelli. Il suo sonno è profondo e rassicurante, le sue membra raccolte, il suo corpo adagiato e quasi unito a quello della donna che la stringe a sé. La curva dei glutei possiede la forma della piccola Luna Crescente, il suo sogno è fuori dalla consueta dimensione del tempo.

Da sempre la Luna scandisce i tempi della donna: molto prima che il Sole servisse a misurare gli anni degli uomini, la Luna misurava i mesi delle donne. E le donne, proprio come la Luna, generavano il tempo e ne erano le custodi. La Luna Crescente serbava il ricordo della notte buia e si preparava a divenire il disco luminoso della Luna Piena, che subito si alleggeriva invecchiando e quindi decrescendo fino a scomparire nell’oscurità: era, è e sarà sempre la stessa Luna, sempre uguale e sempre diversa. La rotazione terrestre ci illude che la Luna si muova da oriente a occidente, ma lei cammina a ritroso, come i gamberi che sono le sue creature acquatiche; e sulle acque inferiori ha dominio da sempre.

Il mondo sublunare è fatto di luce e di buio, ma, quando il Sole declina, la notte non è sempre così oscura perché l’antica Madre le dona un vago chiarore che come un’onda sale e diminuisce d’intensità. La cresta e il ventre dell’onda si alternano senza soluzione di continuità. Chi può dire se viene prima la Luna Crescente o la Luna Calante? Chi sa quando ebbero inizio i giorni e le notti? Chi sa se ci fu mai un inizio nell’esistenza e se ci sarà mai una fine?

Le tre età della donna coesistono come tre gusci concentrici, come tre bambole russe, come tre livelli quantici di diversa consapevolezza del sé, come tre universi dimensionali, come un’unica coscienza in corpi materiali diversi.

La Dea della notte è la sposa ideale del Dio solare del giorno, lo completa e lo armonizza come il sonno rende possibile la veglia, come l’inconscio amplifica la coscienza, come il simbolo realizza l’unità di tutte le cose apparentemente separate. Non vi è, infatti, separazione nell’essenza senza tempo delle tre figure, se non nell’apparenza di una “Matrix” che domina le menti e in modo da far sembrare l’unica realtà ciò che è soltanto una realtà immaginaria.

Giovanni Pelosini

 



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