Fisiologicamente la paura è la forte emozione che segue la consapevolezza di essere in grave pericolo.
Questa sensazione, decisamente individuale, ha però una sua estensione in ambito collettivo con caratteristiche specifiche.
Sembra che tale paura abbia avuto un ruolo importante nella storia e nella formazione del pensiero occidentale: una paura complessa e difficile da definire in ambito sociale e collettivo quanto lo è nella sfera antropologica individuale. In un interessante saggio di Jean Delumeau (La paura in Occidente, Torino, 1994) si afferma che la civiltà occidentale negli ultimi secoli si sia fondata in parte anche sulle paure.
L’immaginario collettivo europeo ha sempre teso a relegare la paura delle masse a un fenomeno sociale deprecabile, eppure nessuno appare esserne immune, a parte isolati casi di eroi coraggiosi e sprezzanti del pericolo che le medesime masse prendono (quasi sempre solo a parole) come esempi positivi.
Le origini della paura
La prima origine della paura è senza dubbio biologica, cioè genetica, essendo finalizzata alla sopravvivenza: nei lunghi millenni nei quali la specie umana si è evoluta, di norma, soprattutto gli individui capaci di provare una istintiva paura riuscivano a vivere abbastanza da potersi riprodurre e quindi trasmettere i propri geni. Non meno determinante però fu anche l’origine sociale della paura, intesa come stimolo “culturale” indotto e inducente a comportamenti ritenuti vantaggiosi. In questo senso, se la prima colonna sulla quale si fonda il sentimento della paura così radicato nell’uomo è stata l’istinto, l’educazione e il contesto sociale hanno rappresentato la seconda.
Sentiva di sfuggire così ai pericoli mortali quell’individuo sociale che sapeva istintivamente, oppure aveva imparato, come provare una sana paura di fronte ai rischi noti e anche di fronte all’ignoto, che sempre poteva celare insidie ancora sconosciute.
Risulta ovvio che una sana paura abbia giocato un ruolo determinante nell’evoluzione di ogni specie animale.
Ma risulta altresì evidente che senza un’altrettanto sana curiosità la paura così descritta avrebbe frenato drasticamente ogni scoperta, ogni sorpresa, ogni meraviglia, e quindi in definitiva ogni sviluppo individuale e sociale.
Cartesio associava la paura alla sorpresa, e in questo ancor oggi gli diamo ragione riconoscendo gli effetti delle scariche adrenaliniche nel nostro corpo sottoposto a spaventi improvvisi.
Eppure, soprattutto negli esseri umani della nostra epoca, che sono assai raramente assaliti dai predatori della savana come lo furono i loro antenati, è innegabile come la paura sia un fenomeno da studiare anche in ambito psicologico. Inquietudini, paure ossessive, angosce emergono dal profondo rivolte spesso all’ignoto che permea l’esistenza.
L’illuminismo volle relegare le ataviche paure fra le superstizioni dannose, e l’uomo progredito dovrebbe riconoscere in sé l’inutilità di certe paure finalizzate un tempo alla sopravvivenza della specie, mentre il passato culturale dell’uomo occidentale evoluto dovrebbe teoricamente renderlo pressoché immune. L’analisi psicologica ci fa spesso riconoscere come la paura sia quasi sempre una pessima consigliera nelle questioni quotidiane, e un freno limitante alle esperienze, alle opportunità, alla crescita.
Ciò nonostante il fenomeno, soprattutto dal punto di vista sociale, rimane complesso e controverso. Riconosciamo quindi con Delumeau la grande rilevanza della paura nella storia occidentale, almeno dal Medio Evo a oggi.
Le società angosciate e rese insicure hanno quasi sempre generato paure collettive: per esempio Charles Heimberg dell’Università di Ginevra rileva che tali paure fittizie e indotte mascherino spesso quelle reali celate nel profondo.
Le paure collettive del Medio Evo
L’antica paura degli abissi del mare, l’atavico timore del buio, della guerra, della fame, della morte hanno indubbiamente segnato la storia del pensiero occidentale e continuano a marcarne le tappe.
Questa escatologica paura di volta in volta trovò occasione di diventare collettiva e ossessiva, con comportamenti eccessivi tipici della psicologia di massa, soprattutto nel Medio Evo focalizzandosi nella paura di un generico quanto terribile “male”.
La paura del male personalizzato nella figura del diavolo raggiunse il suo apice nel XIV secolo: Satana poteva apparire e agire sotto le diverse forme dei nemici della cristianità, di volta in volta associabili ai pagani idolatri, agli ebrei, ai musulmani, agli eretici, ai turchi, alle streghe (talvolta semplicemente alle donne), agli untori, ai diversi di turno.
Non a caso “Mamma, li Turchi!” è un’esclamazione ancora viva nella memoria collettiva europea.
Vedere gli “altri” come pericolosi nemici è da sempre un modo per decolpevolizzare la società, addossando loro colpe e responsabilità di ogni male: in questo clima nacquero le cacce alle streghe e agli untori, le persecuzioni razziali e religiose, le “pulizie etniche” e altre aberranti azioni collettive. I cosiddetti secoli bui del Medio Evo rievocarono così le ancestrali paure dell’uomo generando e diffondendo tenebrose fobie collettive.
Come effige simbolica del maligno avversario furono scelte le caratteristiche di Pan, divinità pagana delle selve, amante della musica dell’antico flauto, licenziosa come un satiro, emblema della libertà dalle convenzioni sociali. In questo modo si associarono il diavolo e i suoi malefici ai retaggi del passato pagano che ancora sussistevano nelle usanze popolari, nei riti e nelle pratiche legate all’antica Magia Naturalis. Al diavolo e ai malefici furono accomunati ebrei, eretici e presunte streghe, che divennero l’oggetto dell’odio popolare scatenato dalla paura collettiva.
Le terribili epidemie di peste bubbonica del XIV secolo avevano colpito duramente le popolazioni europee: la paura della “morte nera” era collegata all’ignoranza delle modalità del rapido contagio, all’impossibilità di curarne i sintomi, alla profonda credenza della maledizione divina scagliata contro l’umanità peccatrice e corrotta.
Un tempo si tendeva a diffidare della stagione calda e umida segnalata in cielo dalla costellazione del Cane, secondo la tradizione ippocratica, “Canis sydum morbum praenunciat”, oppure fenomeni astrali sfavorevoli e anomale come le eclissi, le comete che si diceva corrompessero l’aria, gli anni bisestili, ma si diffidava anche dei ceti sociali inferiori, accusati apertamente di essere veicoli del contagio con i loro atteggiamenti e pessime abitudini alimentari conseguenti alle frequenti carestie.
La credenza nella pestis manufacta portava spesso all’individuazione degli spargitori, untori più o meno consapevoli, del contagio, dilaniando il tessuto civile già compromesso dal morbo. La collettività mortalmente ferita reagiva spesso con delirio aggressivo, e, nel vano tentativo di esorcizzare il male, cadeva preda della follia.
E nel clima di insicurezza crescente la paura trionfava trasformandosi in panico.
Le paure collettive di oggi
Ancora oggi, malgrado lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e il progresso sociale, percepiamo vive minacce alla sicurezza delle nostre comunità: nuove aggressive malattie infettive come Ebola sembrano invincibili e non così lontane, nuovi nemici invisibili come i virus, nuovi barbari con neri vessilli che spargono il terrore, nuovi terroristi organizzati per missioni suicide, nuovi sconosciuti pericoli che si nascondono ancora una volta dietro “l’altro”, il diverso da noi, lo sconosciuto.
Ma la paura è nostra e solo nostra, e solo noi possiamo permetterle di condizionare la nostra vita. Il nostro animo è vulnerabile alla paura come e più di quello dei nostri preistorici antenati.
La paura è l’unico vero virus che può infettarci pericolosamente, contaminare la nostra pace interiore, renderci davvero corrotti.
Nella prima parte del film di Mel Gibson Apocalypto (2006) c’è un interessante dialogo fra il giovane cacciatore Zampa di giaguaro e suo padre Cielo di selce. Il loro gruppo si è appena imbattuto nei superstiti di una tribù in fuga dopo l’aggressione di crudeli nemici.
Chiede il padre: “Che cosa hai visto in quelle persone nella foresta?”
“Non capisco”.
“Paura. La paura che distrugge. Loro ne erano infettati. Hai capito? La paura è una malattia. Striscia nell’anima di chi la prova. Ha già contaminato la tua pace. Non ti ho cresciuto per vivere nella paura. Cancellala dal tuo cuore! Non la portare nel nostro villaggio! Alle prime luci ci riuniremo con gli anziani sulla collina sacra dei nostri padri: chiederemo ai loro spiriti di guidarci”.
Gli antichi gruppi tribali avevano questa grande medicina sociale di cui l’uomo moderno è molto carente: la solidarietà interna, una coesione fatta di esperienze comuni e di affetti, di conoscenze, di saggezza tramandata dagli anziani, di regole e soprattutto di valori condivisi, e di senso del sacro.
Queste sono sempre state le difese immunitarie naturali dell’uomo contro la paura.
La civiltà occidentale oggi è esposta certamente a pericoli reali, ma soprattutto è vulnerabile alla paura che ne ha condizionato lo sviluppo di una fragile struttura interna fin dalle medievali fondamenta.
La paura è ambigua: se fisiologica è una naturale protezione dai rischi, se eccessiva essa diventa patologica e genera blocchi, chiusure, freni allo sviluppo individuale e sociale.
Per non permettere a questa paura patologica, talvolta indotta ad arte nei nostri animi per strumentale manovra socio-politica, di condizionare le nostre scelte e la nostra serenità non ci resta che osservare il nostro passato, conoscere e analizzare obiettivamente il fenomeno e le sue cause, e affidarci alla lucidità dell’intelletto, ben presente nelle parole di un grande uomo della nostra stessa civiltà occidentale, Franklin Delano Roosevelt, pronunciate in momenti difficili della nostra storia:
“Lasciate che affermi la mia convinzione: l’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa!”.
Giovanni Pelosini