L’eterno mito del sacrificio

I miti insegnano che il sacrificio è un atto simbolico di rinuncia che l’uomo può celebrare consapevolmente per consacrare la vittoria dell’Anima sulla Materia.

La flotta degli Achei è pronta in Aulide: più di mille navi nel porto attendono il vento propizio per spiegare le vele e salpare verso Troia, ma, da molte settimane, non spira un alito di vento e la maledizione degli Dei non cesserà finché Agamennone non placherà l’ira di Artemide con un sacrificio umano.
Gli indovini sono concordi: la principessa Ifigenia, amata figlia di Agamennone, deve essere sacrificata alla dea; solo così la flotta potrà partire.
Nel mito greco il sacrificio è dunque un atto di riconciliazione con la Divinità: una sofferenza offerta agli Dei. Maggiore è l’importanza dell’offerta, più grande sarà la ricompensa divina.
L’uomo è quindi chiamato ad una rinuncia dolorosa, che deve accettare, comprendere, affinché il suo sacrificio sia veramente un “atto religioso”, una decisione consapevole per accedere alla sfera divina.
Il messaggio simbolico ed eterno del mito di Ifigenia all’uomo di tutte le epoche è chiaro: se sacrificare significa “rendere sacro”, coloro che percorrono un cammino di ricerca spirituale devono affrontare, prima o poi, il “sacrificio”.
Le filosofie orientali insegnano che avere attaccamenti nei confronti di qualcosa o di qualcuno implica necessariamente la sofferenza, in quanto nulla ci appartiene realmente e niente ci sarà concesso di possedere in eterno. La nostra casa, la famiglia, il lavoro ed il ruolo nella società, il nostro stesso corpo e la nostra personalità: niente ci apparterrà per sempre.
Prima dunque che l’Anima si spogli di ogni illusione, riacquistando finalmente la consapevolezza della propria dimensione divina ed eterna, all’uomo potrà essere chiesto di sacrificare ciò che ama.
Ma il sacrificio di ciò che si ama non implica letteralmente la sua assoluta perdita; rappresenta piuttosto il simbolo della rinuncia al suo possesso, il segno della sconfitta dell’ego, la purificazione dell’Anima.
Dunque il sacrificio è soprattutto una vittoria interiore, la vittoria dell’Anima sulla parte materiale dell’Uomo: maggiore è la rinuncia materiale, più grande sarà la ricompensa spirituale.
Il mito di Ifigenia insegna anche che il sacrificio è simbolico, potremmo dire quasi virtuale: il re Agamennone, tormentato dal dubbio, accetta finalmente di sacrificare ciò che ama di più sull’altare di Artemide, ma, all’ultimo istante, la Dea stessa salva la principessa dalla morte sostituendola con un cervo sacrificale. Come nell’analogo episodio biblico di Abramo ed Isacco, è evidente che la divinità non esige la dolorosa e cruenta morte di vittime innocenti, ma chiede la rinuncia all’attaccamento egoico nei loro confronti: la rinuncia a possederli in qualunque modo.
Una volta accettata tale rinuncia, la perdita reale dell’oggetto dell’attaccamento non è più veramente necessaria, ed è lecito gioirne con vero Amore.
Il risvolto drammatico della vicenda di Agamennone è piuttosto il suo falso ideale spirituale. Il re non è mosso da spirito religioso e dal desiderio di elevare la propria anima, ma dall’orgoglio e dall’ambizione di muovere guerra a Troia per tornare più ricco e potente. Accetta di sacrificare sua figlia solo perché spinto dal desiderio di ulteriori e persino più bassi compensi materiali; così che il suo non è più un sacrificio, vale a dire un atto profondamente spirituale, ma un sacrilegio e una profanazione.
Né la moglie né gli Dei potranno perdonargli questo errore e, ritornato a casa dopo dieci anni di guerra, troverà miseramente la morte senza poter godere di alcun vantaggio così duramente concupito.
Un ulteriore insegnamento per l’Anima umana a sacrificare non solo il proprio attaccamento alla Materia, ma a sconfiggere anche l’orgoglio, come ultima risorsa dell’ego.
Giovanni Pelosini

(pubblicato in «AstroMagazine», marzo 2005)



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