Non è “ancora” troppo tardi
È recente la preoccupata dichiarazione di Tullio De Mauro che lamenta il crescente analfabetismo di ritorno in Italia. Pare, infatti, che ben il 70% degli italiani possano essere considerati “analfabeti”, non leggendo praticamente mai, non avendo di fatto occasioni per scrivere né per utilizzare la lingua scritta nella sua complessa struttura.
Certamente non si tratta di persone che non sono in grado di leggere le parole scritte, e probabilmente la maggioranza di queste sa ancora riempire un modulo e firmarlo. Niente a che fare con le persone che, nel secolo scorso, per varie motivazioni, non avevano avuto mai la possibilità nella loro vita di imparare, come si soleva dire, a “leggere e scrivere”. Fin dai primi decenni dell’unità di Italia, di cui stiamo per celebrare ormai il 150° anniversario, questo problema pesò sulla nostra giovane nazione ricca di cultura orale e “dialettale”, ma povera di istruzione, al punto che, ancora una cinquantina di anni fa, se ne faceva carico l’allora unico canale televisivo di stato con la famosa trasmissione di alfabetizzazione di Alberto Manzi dal titolo evocativo Non è mai troppo tardi. In questa trasmissione il paziente maestro Manzi si rivolgeva con gentilezza e competenza soprattutto ai telespettatori adulti volenterosi di apprendere e consolidare l’uso della lingua italiana, lanciando appunto il famoso slogan secondo il quale, per imparare, “non è mai troppo tardi“. Ricordo con una certa nostalgia quella sobria trasmissione in bianco e nero, i disegni agili e stilizzati sulla lavagna e il robot Robby che forniva informazioni e suggerimenti, preso pari pari da un meraviglioso film di fantascienza del 1956: Il pianeta proibito, liberamente tratto da un soggetto shakespeariano, che evocava un’affascinante atmosfera.
Altri tempi! Quell’Italia non esiste più.
Chi sono allora questi milioni di analfabeti odierni?
Sono persone di capacità normali che hanno avuto un normale percorso scolastico in cui hanno ovviamente imparato a leggere e a scrivere, ma che poi non hanno avuto né occasione né necessità, né desiderio di continuare a utilizzare la lingua scritta, al punto che ormai non sono più in grado di comprendere (e figuriamoci se riescono a produrre) un testo sensibilmente più complesso di una lista della spesa.
La questione è molto grave perché non viviamo più nelle comunità rurali di un tempo, in cui le antiche tradizioni culturali erano vivaci interpreti di una cultura ricca di valori condivisi e di senso, in cui la formazione dei singoli avveniva grazie ai legami interpersonali forti presenti nelle grandi famiglie contadine e nei piccoli villaggi. Oggi viviamo nel cosiddetto “villaggio globale” che abbraccia ormai l’intero pianeta, e sempre più ciascun individuo è chiamato ad essere “cittadino del mondo“, cioè ad assumersi la propria parte di responsabilità in contesti sempre più complessi e difficili per approccio, comprensione e soluzione.
L’umanità difficilmente potrà far fronte alla sfida globale della sostenibilità del suo stesso sviluppo futuro senza una adeguata formazione dei propri membri, una formazione che nasca dal dialogo, dalla dialettica, dalla comunicazione, ma anche dalla conoscenza delle problematiche, e, in prima istanza, dalla istruzione.
Cercare di formare cittadini di questo mondo moderno e complesso che “terminino” la loro istruzione durante l’adolescenza e che proseguano la loro esistenza nell’analfabetismo di fatto è un’operazione suicida per qualunque civiltà.
In Italia da decenni assistiamo a una progressiva e sistematica diminuzione degli investimenti nei campi dell’istruzione pubblica e della cultura, anche con piccole e grandi riforme scolastiche finalizzate soprattutto a risparmiare risorse economiche da destinare ad altri settori.
La comunicazione e la formazione oggi avvengono principalmente con modalità diverse dal tradizionale linguaggio scritto; soprattutto la televisione è diventata il primo mezzo di informazione e di formazione, ma purtroppo con finalità commerciali e quasi mai educative.
Se tali nuovi potenti e meravigliosi mezzi di comunicazione di massa stanno sostituendo la tradizionale lettura (nonché la scrittura), dobbiamo purtroppo rilevare come aumenti parallelamente la superficialità nella forma e nella sostanza dei contenuti trasmessi.
Questo spiega l’impressionante 70% di italiani analfabeti di ritorno, e, come effetto collaterale, la loro generale crescente tendenza ad abdicare le proprie primarie responsabilità di cittadini.
I nuovi media posseggono straordinarie capacità impensabili fino a pochi anni fa, la rivoluzione informatica sta trasformando la natura della stessa civiltà che l’aveva fatta nascere, e le possibilità di apprendere sono esponenzialmente cresciute; eppure siano di fronte al paradosso di poter accedere a una quantità di informazioni impressionanti senza poterne fruire se non minimamente.
Il mondo di Internet è di per sé un gigantesco serbatoio di nozioni, pensieri, informazioni, notizie di ogni tipologia, eppure, paradossalmente, siamo tutti più poveri dal punto di vista delle conoscenze basilari, e soprattutto da quello dei valori condivisi che ne scaturivano. Nell’immenso oceano delle informazioni in rete si rischia facilmente di naufragare, se già non si possiede un bagaglio culturale minimo come bussola.
Tutti sembrano sapere tutto, ma l’informazione arriva spesso distorta e superficiale, e soprattutto il 70% dei cittadini potenzialmente e tendenzialmente non è in grado di articolare pensieri autonomi su alcunché.
Questa amara e forse troppo pessimistica considerazione porta a concludere che soltanto su una minoranza di cittadini ricade l’enorme responsabilità di tenere vivo il senso stesso della cultura, anche contro una tendenza ormai pluridecennale che vede la vittoria del vuoto slogan sul ragionamento e la crescita del Paese fondata su paradigmi finalizzati più a sviluppare un pur effimero consenso politico che non una ragionevole convergenza di pensieri.
“Chi legge disturba anche te, digli di smettere” potrebbe essere lo slogan imperante di un ipotetico scenario futuro in cui la minoranza di alfabetizzati dovesse ulteriormente ridursi fino a diventare una scomoda élite, più o meno come l’aveva pessimisticamente descritto Ray Bradbury in Fahrenheit 451 (temperatura alla quale brucia la carta e quindi i libri).
Il 23 aprile 2010, in occasione della recente Giornata Mondiale del Libro, l’associazione degli editori ha dichiarato che sono soltanto uno su quattro gli italiani che, nel corso del 2009, hanno letto almeno un libro non scolastico, il che conferma sostanzialmente la stima di De Mauro.
Eppure c’è anche una nota ottimistica se pensiamo che i maggiori successi editoriali italiani (e non solo) sono determinati soprattutto da lettori giovanissimi, soprattutto fra gli 11 e i 14 anni. Basti pensare alla saga di Harry Potter e a quella degli affascinanti vampiri di Twilight.
Possiamo allora sperare in future generazioni formatesi (anche) con la lettura? Non so se questa considerazione possa farci essere del tutto ottimisti, ma, certamente, aiuterà noi lettori compulsivi e scrittori per necessità fisiologica a non sentirci in via di estinzione come i panda giganti nelle riserve.
E infine noi, che siamo spiriti liberi, vogliamo anche sperare di contribuire all’inversione di tendenza, e, parafrasando il rassicurante buon Alberto Manzi, pensiamo e scriviamo “non è ancora troppo tardi“, affinché si legga, e soprattutto si continui a pensare.
Giovanni Pelosini
24 Agosto, 2010 alle 21:06
… sperando però che chi poi dovesse (auguriamocelo) imparare a leggere faccia uno sforzo in più per capire bene ciò che legge e non (come capita sempre più spesso) travisare tutti i concetti e persino ribaltarli del tutto. Imparare a leggere, infatti non basta. Bisogna che si impari a capire ciò che si legge.
“Non è ancora troppo presto” per augurarselo davvero. O no?