Simboli di Shiva Nataraja: il Signore della Danza

Il bronzo indiano di Shiva Nataraja è un’antica raffigurazione ricchissima di simboli riprodotta in innumerevoli esemplari e diventata ormai emblematica della complessa visione mistica orientale della realtà cosmica.

Il Dio Shiva è rappresentato nell’atto di danzare in mezzo a un cerchio di fuoco: in effetti Nataraja significa letteralmente “Signore della Danza”, e le movenze ricordano gli esotici balli orientali, tradizionali retaggi di grande valore spirituale, oltre che antropologico ed etnografico. Scrive Patrizia Saterini (Spirito Libero, XX, maggio 2010): «Nella danza indiana tutto il movimento parte da uno stato di equilibrio. Dall’essere ancorato costantemente nel proprio baricentro, il corpo può agire, le braccia e le gambe diventano delle estensioni energetiche e il danzatore diventa uno strumento di espressione tale che la danza si trasforma in un rito sacro (…) Il danzatore-attore, quindi, in uno stato interno ed esterno di equilibrio, mira a “perdere” se stesso per lasciare che la danza avvenga, che il racconto sacro venga manifestato nella dimensione temporale circolare del mito e che la divinità venga ‘incarnata’. In questo senso il danzatore è sacro, perché attraverso il suo corpo, secondo una “grammatica” posturale dettata da una tradizione millenaria, diventa una porta aperta per lo spettatore verso una dimensione ultra-umana.»

La danza divina è il simbolo della creazione cosmogonica, ma anche della trasformazione, del ciclo della vita e quindi della stessa distruzione. Il cerchio di fuoco è una vera e propria aureola fiammeggiante che emerge dalle doppie fauci di Makara, un mostro marino analogo al Leviatano di biblica memoria che si diceva avvolgesse con le sue spire l’intero mondo, richiamando i concetti di caos e di ordine cosmico. Nelle statuette riprodotte spesso è presente un cobra che si avvolge sul primo braccio destro della divinità e sulla sua spalla e che si protende verso il cerchio di fuoco.

Osservando la testa di Shiva si riconoscono due orecchini diversi: di uso tradizionalmente maschile quello destro, femminile quello sinistro. La simbologia è evidentemente riferita alla completezza divina che riassume in sé i princìpi opposti riunificando in armonia la dialettica conflittuale delle energie all’origine del cosmo e della vita. Per lo stesso motivo anche gli Yogi sono spesso raffigurati per metà uomini e per metà donne, con tutte le simbologie mitologiche, e planetarie astrologiche, che supportano la mistica anatomia dei Chakra e delle Nadi. L’androginia della figura, suggerita anche dalle forme dello stesso corpo, trova delle corrispondenze precise nel Rebis della tradizione alchemica occidentale, richiamando così gli aspetti più profondi delle discipline iniziatiche alla base dei processi finalizzati alla Grande Opera, apparentemente solo spagirici.

L’espressione del volto è comunque impassibile, pur in mezzo ai vortici della danza che fanno roteare la lunghissima chioma ai due lati della testa. E proprio su questa divina capigliatura, come fosse un’onda sinuosa di un fiume, narra il mito che ricade la cascata delle acque sacre del Gange discese dal cielo. Il movimento dell’acqua come emblema di vita si rafforza con il simbolo della falce lunare da un lato e di un teschio dall’altro. Veramente le origini dei simboli si dimostrano universali se si pensa solo alla forma sinuosa della lettera semitica Mem (Acqua Vitale), progenitrice della moderna “M” e associata al tredicesimo Arcano dei Tarocchi, che molti lasciano senza nome e altri chiamano senza timore ma con rispetto “Morte”, quale imprescindibile attributo della “Vita”. Sempre tra i capelli fluenti del Dio, in molte versioni si riconoscono la stessa Dea Ganga, patrona del più sacro fiume dell’India, e il fiore della datura, la pianta velenosa che ha fama di essere utilizzata come allucinogeno in certi rituali magici.

Come spesso accade nelle raffigurazioni orientali il Dio ha quattro braccia. La prima mano destra rassicura con il Mudra, il gesto simbolico di allontanamento della paura e quindi della protezione; nel palmo si riconosce l’incisione della sacra sillaba OM, il suono primordiale, il Mantra che avrebbe dato origine all’intero universo.

L’altra mano destra suona il damaru, un piccolo tamburo a forma di clessidra. È da questo ritmo che prende vita il cosmo e origina il tempo che scandisce i cicli personali e universali.

Con una mano sinistra Shiva mostra la fiamma dello Spirito: il Fuoco in contrapposizione dualistica con l’Acqua del Gange, così come il principio Maschile si confronta continuamente con l’energia Femminile del cosmo. Le fiamme sono offerte anche per la trasmutazione, per incenerire il velo di Maya e togliere così ogni illusione che impedisce di vedere il Vuoto eterno della Realtà, al di là della vita e della morte, al di là del tempo.

La seconda mano sinistra si protende nel simbolico Mudra detto “Mano dell’elefante” a significare la sicurezza di chi sa aprire una strada e sa insegnare quale sia il sentiero da seguire. Chi ha visto un elefante muoversi nella giungla indiana sa che gli altri animali spesso seguono l’agile sentiero lasciato dal suo passaggio.

Il piede sinistro si alza con grazia e senso di libertà nel Mudra della benedizione, mentre il destro schiaccia il simbolico nano, emblema degli attaccamenti materiali, su cui Shiva crea danzando. Sia il piede sia il nano indicano lo stesso sublime concetto: la liberazione dalla condizione umana per evolversi nella condizione divina, non più schiavi della materia, delle passioni e degli attaccamenti, non più legati alla ruota delle reincarnazioni, e della sofferenza che ne deriva.

Come ha notato Joseph Campbell, nella sua complessità la danza di Shiva rievoca, anche con la postura che assume, la forma delle lettere devanagari della sillaba OM: la danza crea, conserva e distrugge, la danza incatena e la stessa danza può liberare.

Giovanni Pelosini



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