Quanto è Lontana Samarcanda

Non so se sia davvero un’autentica leggenda orientale, ma la storia narrata e cantata da Roberto Vecchioni, anche dopo anni, non cessa di commuovermi ogni volta che l’ascolto.

Un soldato si è coperto di gloria in un’epica battaglia e il suo re è orgoglioso di lui.  I festeggiamenti nella capitale durano tutta la notte e i militari finalmente possono liberarsi delle tensioni e delle paure. Il soldato protagonista della storia beve fino a farsi bruciare la gola, getta nel fuoco la divisa, e ride di continuo, ebbro di alcool e di gioia. I nobili sfilano indossando le loro armature più belle e portano le insegne. I fanti scortano carri pieni di armi e bandiere sottratte al nemico. Le trombe della guerra lasciano campo alla banda musicale; i tamburelli ora battono ritmi di festa e riempiono i cuori di felicità: la gioia del soldato però cessa di colpo quando scorge tra la folla la “Nera Signora” che lo fissa con intensità.

Improvvisamente il terrore si impadronisce di lui; si ricorda di aver sentito dire dai veterani che lo sguardo della Nera Signora non lascia scampo a nessuno: «Quando la Morte ti fissa negli occhi, sei giunto alla tua ultima battaglia, soldato! Mille volte abbiamo visto il nero sguardo fissare i nostri compagni e mille volte li abbiamo visti correre come dannati, ma la Morte è sempre stata più veloce dei loro piedi: li ha sempre raggiunti, immancabilmente.»

Con la mente ancora confusa dal vino e il cuore in tumulto, il soldato si mette a correre come un pazzo; inciampa sui corpi di compagni ubriachi, travolge un mendicante cieco, cade e si rialza urlando. Corre ancora in preda alla disperazione guardandosi continuamente indietro: «Per quanto tempo potrò tenerla a distanza? Fra breve la sua scintillante falce mi taglierà la testa e io avrò finito di soffrire! Non ho speranza.»

L’istinto (o la fortuna) lo porta di fronte al palazzo del re, e il soldato all’improvviso ricorda: in guerra si trovava proprio a fianco del sovrano quando il nemico tentò di catturarlo. Fu una fortuna perché si accorse in tempo dell’attacco, e il suo intervento fu determinante per sventare il tentativo e quindi per vincere la battaglia. «Soldato, hai salvato la vita del tuo re e aperto la strada della vittoria;» si sentì dire con solennità, «chiedimi qualunque cosa, e l’avrai. »

Ora è il momento di ricordare la promessa al re: di corsa attraversa il ponte levatoio e il cortile guardandosi sempre indietro con affanno e timore. Chiede udienza e, trafelato, arriva finalmente al cospetto del monarca: «Salvami, salvami, grande sovrano,» implora, «fammi fuggire di qua, ti prego!» Il re lo guarda con stupore: mai aveva visto quel soldato coraggioso mostrare tale terrore, piangere e supplicare disperato. Gli fa cenno di continuare, e il soldato parla ancora; in modo concitato ricorda la promessa ricevuta, descrive il terribile incontro con la Morte, implora aiuto e conclude: «Alla parata Lei mi stava vicino, e mi guardava con malignità!»

Il re comprende che non c’è tempo da perdere. Se la Morte corre più veloce di ogni uomo, forse non può battere in velocità il suo migliore destriero: «Dategli un animale, presto!» Ordina, «Che sia il più grande campione della mia scuderia! Che sia figlio del lampo e nipote del vento! Dategli la bestia più veloce che esista! »

La speranza tocca ancora il cuore del soldato, che, senza indugio, salta in groppa al meraviglioso cavallo che gli viene subito portato. Un attimo dopo cavallo e cavaliere stanno già uscendo dalla città in un turbinoso galoppo. Quando il soldato si volta indietro, le mura della capitale sono già lontane e quasi scomparse all’orizzonte, mentre non c’è traccia della Nera Signora. Rapidi scorrono davanti agli occhi del soldato fiumi immensi, campi e deserti, sentieri che sembrano infiniti.

«Corri, cavallo, corri, ti prego! Corri come il vento che mi salverò!» Incita l’animale che galoppa tutta la notte e tutto il giorno successivo, senza mai fermarsi, senza mai rallentare. Senza mai scendere di sella, il soldato sente il dolce suono dei grilli notturni lentamente sfumare nell’insistente canto delle cicale. Senza mai scendere di sella, il soldato vede sorgere il sole, lo vede salire caldo a mezzogiorno, e lo vede scendere sotto l’orizzonte, poi vede infittirsi il nero della notte fino a sfumare nell’alba viola.

E infine, stremato, vede le bianche torri di Samarcanda: nessun animale aveva mai corso dalla capitale fino a quella città così rapidamente e senza sosta, nessun essere vivente l’aveva mai fatto. Il soldato entra al galoppo nella città ancora addormentata e finalmente si ferma nella piazza. Con una carezza ringrazia quello straordinario cavallo che ha compiuto una grande impresa e lo ha condotto alla salvezza. L’animale respira con affanno; il suo cuore batte ancora all’impazzata; una schiuma bianca copre tutto il suo manto, ma è felice di aver compiuto il suo dovere e di aver accontentato il cavaliere smanioso di correre per ore e ore. Il soldato si sente vivo e felice come non mai, mentre scende di sella e finalmente tocca di nuovo terra liberando il cavallo del suo peso. Il sangue fluisce veloce in ogni parte del suo corpo. Soltanto ora sente di nuovo sete, fame e stanchezza; soltanto ora che si sente in salvo. Ma una vaga sensazione di pericolo lo fa voltare. Proprio lì, in piedi, con la sua falce maledetta, la Nera Signora sembra attenderlo da sempre.

Stanco di fuggire, china la testa e mormora con un filo di voce: «Eri tra la folla nella capitale, so che mi guardavi con malignità. Sono scappato da te come un pazzo con il cavallo più veloce del mondo. Ho cavalcato tutta la notte, tutto il giorno, e poi ancora per una notte… Sono scappato da te, ma ora ti ritrovo qua.»

«Sbagli, ti inganni, ti sbagli, soldato, io non ti guardavo con malignità.»

«Ma io ti ho vista…»

«Il mio era solamente uno sguardo stupito: cosa ci facevi l’altro ieri nella capitale? T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda; eri lontanissimo due giorni fa. Ho temuto che per ascoltar la banda, non facessi in tempo ad arrivare qua.»

A cosa vale correre, affannarsi, scappare dal destino? L’appuntamento fissato non può mai essere eluso. Questa sembra essere la morale deterministica, come una sentenza immutabile che toglie all’uomo ogni possibilità di scelta, un giudizio assolutamente inappellabile. Ma ci sono, in realtà, altri modi di intendere la leggenda, e conseguentemente la vita, perché lo “spirito libero” deve poter guardare oltre.

Se il soldato della storia fosse stato spinto, anziché dalla paura della morte, dalla sete di conoscenza di se stesso, forse avrebbe agito diversamente, riconoscendo che la paura è un sentimento fisiologico utile in molte situazioni di emergenza, ma difficilmente è una buona consigliera. Neanche l’abitudine di norma è una buona consigliera. L’abitudine ha spinto il soldato ad agire privo di una reale conoscenza della situazione, ed è la sua stessa abitudine che lo ha trascinato verso il cosiddetto “destino”.

È quindi vero che chi si muove senza coscienza viaggia dritto verso una meta che possiamo chiamare “destino”, così come la storia del soldato dimostra, ma è pur vero che la conoscenza può permettere all’uomo di compiere scelte consapevoli. In tal caso è possibile che mirate scelte del presente condizionino il futuro, cioè cambino la meta verso cui si corre così spesso inconsapevolmente.

Non è poi così lontana Samarcanda, così come non lo è nessuna altra meta: l’importante è aver chiaro il motivo per cui si vuole andare fino là.

Giovanni Pelosini



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